Politica

Democrazia & ipocrisia

L’invocazione della democrazia, all’interno dei partiti, ha una lunga tradizione e una larga ipocrisia. Dalla vicenda del senatore Mineo alle scelte on line delle truppe ortottere, dal “che fai, mi cacci?” alle primarie senza regole e controlli, a ciascuno piace dirsi dibattente e democratico, a nessuno piace il dissenso, mentre d’essere trasparente lo si chiede solo all’avversario. Taluni, nostalgicamente, sostengono che un tempo era diverso, che nei partiti c’era dibattito e democrazia. Il tempo ha confuso loro le idee: c’era dibattito, perché c’era politica, ma i congressi erano tutto fuorché il trionfo della limpidezza e delle idee sovrastanti fazioni e cordate. Dalle tessere false all’espulsione dei disturbatori, passando per il frazionismo degli esuli, quel passato democratico è piuttosto immaginario. Ciò significa che non c’è scampo e prevarrà sempre il peggio? No, significa che le regole contano più degli animi. E se si vuole cambiare si deve mollare la zavorra di “democrazia & ipocrisia”.

Da noi i partiti sono associazioni private. Ciascuno si regola come gli pare. E’ vero che i partiti politici sono citati nella Costituzione, quali strumenti della democrazia, ed è vero che più di una volta s’è provato a regolarne la vita interna, legandola al finanziamento pubblico. Ma sono stati assalti al vuoto. Destinati a divenire ridicoli in un’era, la nostra, in cui non scatta l’ostacolo del pudore nel mettere ai partiti il nome del proprio casato. La ragione per cui non se ne fece mai nulla è semplice: in altri sistemi democratici (ad esempio Regno Unito), i partiti hanno poteri enormi (designare il premier e assegnare i collegi); da noi avevano solo quello di tenere unite le truppe, dare loro una linea, mentre per il resto era centrale il Parlamento. Questa è la ragione per cui, che a Renzi piaccia o non piaccia (e non gli piace, come non piaceva a Berlusconi), è costituzionalmente irragionevole pensare di dare ordini ai parlamentari: perché senza democrazia interna e senza libertà degli eletti si cancella la democrazia e la libertà di tutti. Solo che poi sono arrivati i “nominati”, i figli del bislacco sistema elettorale non maggioritario, ma con i premi di maggioranza. E il sistema s’è impallato.

A destra se ne curarono poco, perché avevano un capo-fondatore, quindi chi dissentiva poteva anche andarsene subito, risultando inutile contarsi. A sinistra provarono a rimediare prendendosi in giro, con le primarie. Le prime due edizioni furono tarocche quanto poche altre cose al mondo. Non era falsa la gara, il cui esito era scontato, era falso tutto. Poi le cose cambiarono, tanto è vero che Renzi contestava proprio le regole. Con una postilla, però, di marca terzinternazionalista: i perdenti devono allinearsi ai vincitori. Era il centralismo democratico, che non era affatto democratico. E’ rimasto. Renzi lo ha praticato e ora lo vuole per sé.

Tutto ciò non funziona. Il risultato che abbiamo ottenuto, dopo venti anni di questa cura, è ragguardevole: non esistono più i partiti, intesi come corpi politici, ma non esistono ancora le regole di democrazia dal basso. Tornare indietro è complicato. Lo spera qualche rudere, contando così di tornare giovane. Ma non funziona. Andare avanti vuol dire cambiare le regole, ad esempio introducendo le primarie. Ma con legge e controlli, non ruspanti e con il doppio fondo. Che ci fai, però, con le nuove regole se non hai nuove istituzioni? Il cortocircuito è talmente evidente che, infatti, il governo ne è rimasto fulminato: prima ha proposto un Senato sul modello tedesco, sottacendo il dettaglio che quello è uno Stato federale; poi ha indicato il modello francese, facendo finta di non sapere che quella è una Repubblica presidenziale. I partiti tedeschi sono diversi da quelli francesi perché diverso è il modello istituzionale, quindi la legge elettorale. Da noi che facciamo? il bassotto con la proboscide o la giraffa con le gambine?

Un sistema c’è, per non andare incontro a sicuro fallimento, come anche per scongiurare che l’arroganza degeneri in imposizione costituzionale (accadde con il titolo quinto, di cui si pentono coloro che lo vollero). Consiste nel lasciare il governo, e la sua maggioranza, alle già enormi cose dell’economia, del lavoro e della politica estera, chiamando gli italiani a eleggere, con sistema proporzionale, una ristretta sede costituente. Con il mandato di un solo anno. Il prossimo si vota, per le regionali. Sarebbe l’occasione per non sciropparsi una campagna elettorale, con i guasti che provoca, del tutto vernacolare.

Pubblicato da Libero

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