I terroristi iracheni, i seguaci del nazicomunista Saddam, invitano gli italiani a manifestare contro Bush. Coloro che vorranno farlo faranno bene a farlo, in modo pacifico e non violento, perché non si cede al ricatto degli assassini. Così come noi, a Paizza Navona, il pomeriggio e la sera del 4, manifesteremo in senso opposto. Questa è la forza, anzi, la superiorità della democrazia.
Seguaci di dittature, ideologie mortifere e fedi cieche hanno sempre creduto che le democrazie siano deboli, i popoli democratici imbelli, incapaci di menar guerra e di subirne il peso. Da ultimo ne è convinto un fanatico traditore della sua stessa religione, che avendo sconfitto il comunismo sovietico, di cui ammirava la monolitica capacità di mandare i giovani a morte, ritiene sia facile mettere in ginocchio le democrazie occidentali. E prima fra tutte la più grande e più potente, quella americana. Noi dovremmo sapere di quanto si sbaglia e si sbagliano.
Gli anni passati, una certa filmografia, la retorica della pace e della non violenza, contribuiscono a sfumare i contorni della memoria e della conoscenza. Ma i militari statunitensi che risalirono la penisola italiana, giungendo a Roma il 4 giugno del 1944, non fecero una scampagnata. Quella era guerra. Feroce, come tutte le guerre. Capace di portare la morte agli inerti, agli innocenti, ai piccoli, come tutte le guerre. Scatenante gli istinti peggiori dell’essere umano, come tutte le guerre. E giusta, drammaticamente giusta, come non tutte le guerre sanno essere. Necessaria, assolutamente necessaria a far prevalere la libertà sulla dittatura, come non tutte le guerre sanno essere. Vittoriosa, alla fine, quando alto era stato il tributo di sangue versato.
L’ingresso degli Stati Uniti d’America nella seconda guerra mondiale non fu una missione di pace. A propiziarlo non bastavano gli appelli dei pochi democratici europei non ancora inghiottiti dall’incubo nero, né questi sarebbero bastati a rispondere a quella parte dell’opinione pubblica e della politica americani che si domandavano perché andare a morire per quegli europei che non erano stati capaci di difendersi, anzi, che s’erano infettati da sé soli, con il loro nazionalismo, con la loro politica di potenza, con la loro incapacità di riconoscere e combattere il pericolo. Per quell’ingresso contarono anche gli interessi, la saggia visione di una potenza economica che si avviava ad essere una grande potenza militare e politica. Contò l’interesse di non vedere passare l’Europa dalle tenaglie del nazifascismo alle catene del comunismo, contò, quindi, il desiderio di fermare l’espansionismo dell’allora alleato sovietico. Migliaia di giovani americani s’imbarcarono per l’Europa, migliaia ci lasciarono la vita, per servire gli interessi del loro Paese. Ma, ed è questo che occorre non dimenticare, quegli interessi erano coerenti con la libertà, con la democrazia, con lo sviluppo economico, con la nostra ritrovata felicità. Altri giovani, ad est, andarono a perdere la vita, ma combattendo sotto le bandiere di una potenza che marciava per l’oppressione, la dittatura, la povertà, la disperazione.
La storia non ci consegna una rassegna di eguali, né il quadretto allegro di armate che avanzano al suono delle fanfare. Si combatté, allora, anche una guerra di civiltà, e noi avemmo la fortuna, la fortuna, di ritrovarci nella parte libera e prospera del mondo. Perché fosse libera si usarono le armi, e perché lo rimanesse si continuarono a puntare le armi, giacché armi avevamo puntate contro di noi: missili nucleari “tattici”, quanto sarebbe bastato per porre la parola fine alla nostra esistenza.
Scrivo queste cose, nel giorno in cui ci accingiamo a ricevere la visita del Presidente degli Stati Uniti, intanto perché è sano il Paese che non smarrisce la memoria, che non la confonde ed inquina con le bidonerie di manuali che non avrebbero dignità neanche di opuscoli di parte. Ma anche perché occorrerebbe non confondere le cose serie, le radici stesse della nostra libertà, con la polemicuzza quotidiana. Le democrazie non solo sono forti, non solo hanno una morale capace di combattere, ma sono imbattibili, quando il loro combattere non tradisce il loro essere. Le democrazie sanno stare in guerra anche senza rotolarsi nella retorica guerriera. Anzi, le democrazie sono forti perché sanno stare in guerra non togliendo la parola a quanti quella guerra non avrebbero voluto.
Le democrazie sono forti perché non amano la guerra, ma la pace. Sanno, però, che se la pace è una realtà da conquistarsi, il pacifismo è quasi sempre o una cretinata o la scusa di chi preferisce la sconfitta.