Politica

Dentro i sei punti

E’ vero che non sono i mercati a scegliere i governanti, ma è anche vero che chi governa non può considerarli un fastidio. E’ vero che gli annunci non servono a nulla, che se si anticipano a parole misure di rigore si ottiene il solo risultato di bruciarne l’effetto, ma è anche vero che non si può sostenere di avere fatto il necessario e che ci si rivede a settembre, per un bel piano condiviso da tutti. Il tempo della responsabilità è ora, e comporta il fare, non il dire.

La situazione in cui ci troviamo è maledettamente seria e rischia di costarci troppo per poterci permettere vezzosi minuetti. L’euro ci ha portato anni con tassi bassi, purtroppo impiegati più a compiacersene e a rinviare quel che sarebbe stato comunque necessario. Anni in cui a noi che reclamavamo cambiamenti strutturali si rispondeva che le cose andavano bene e gli ammortizzatori sociali avevano funzionato a dovere. Ora l’euro ci mostra il suo lato velenoso, incarnato in spread assassini. Il tempo scade, e se ne frega delle ferie.

Se il governo non intende inabissarsi e attribuirsi tutte le colpe ha il dovere di segnalare le difficoltà, anziché puntare sulle soavità. Non ha senso un aggiornamento programmatico, perché quel che succede era largamente prevedibile (qui lo abbiamo scritto), sicché cambiare strategia equivale a confessare l’errore. Assai più utile, invece, prendere in parola le parti sociali e avvertire sia dei loro errori che di quel che comporta ciò che propongono. Si superi lo strato viscido dell’ipocrisia, avvertendo delle conseguenze economiche e politiche del passare dalle parole ai fatti.

Per capire cosa significa passiamo velocemente in rassegna i sei punti elaborati dai rappresentanti dell’Italia che produce e lavora. 1. Costituzionalizzare il pareggio di bilancio. A che serve? A porre un vincolo invalicabile alla spesa pubblica. Giusto, ma se ci si limita a questo rimarrà solo quella corrente, facendoci affondare. Si deve cambiare la struttura della spesa pubblica e del welfare, vale a dire toccare gli interessi vivi e reali dei dipendenti pubblici e dei cittadini assistiti. Fin qui è bastato fare un passo in quella direzione (sempre troppo timidi ed esitanti) per scatenare il finimondo. Si proceda, allora, ma sia chiaro che si tratta di tagliare la carne, non di sfoltire i capelli. 2. Diminuire i costi della politica è una cosa tanto giusta quanto oziosa. Sta diventando un ritornello stucchevole. Sono favorevole a sopprimere tutte le auto di servizio, dette “blu”. Quelle dei ministri comprese. Ma senza licenziare gli autisti quanto credete che si risparmi? Sono favorevole a sopprimere tutte le province, ma senza licenziarne i dipendenti i costi si limiteranno a traslocare. I costi della politica vanno tagliati con l’ascia, ma riguardano la presenza dello Stato nel mercato, con conseguenti nomine politiche. Il tema è quello dell’articolazione dello Stato, non di qualche privilegio che è semplicemente vergognoso non sia già stato cancellato.

3. Privatizzare e liberalizzare. Giustissimo. Però, porca miseria, eravamo in quattro scemi a difendere l’attribuzione ai privati della gestione dell’acqua, mentre tutti gli altri sono corsi a rimpiattarsi e a surfare sulle onde della demagogia. Quindi, va bene, ma si cominci con il dire quel che significa: lasciare alle regole del mercato quel che oggi è coperto dalle regole della spesa pubblica. Viva il profitto a morte la rendita. 4. Sbloccare gli investimenti, pubblici e privati. Giustissimo, ma significa che non ci si possono mettere venti anni per stabilire da dove cavolo passa un’autostrada o una ferrovia, il che comporta che sindaci e comitati vari non possono essere trattati come signori feudali o latifondisti demaniali. Presa una decisione si va avanti. Il che, inoltre, significa farla finita con i ricorsi amministrativi concessi su tutto. Vi siete scandalizzati? Bravi, ma se non si usa questo metro lo sblocco degli investimenti è solo un gargarismo. Chiedono anche di riformare il titolo quinto della Costituzione ed evitare sovrapposizione di competenze. Bravi, ma è già stato fatto, salvo il fatto che un referendum (voluto dalla sinistra e capeggiato da tal Oscar Luigi Scalfaro) ha affossato tutto. 5. Pubblica amministrazione semplificata, fatturazione elettronica e digitalizzazione. Arcibene. Ma non ci arriveremo mai senza usare esternalizzazioni e maggiore flessibilità del lavoro. Altrimenti non si fanno che sommare i costi della vecchia burocrazia con quelli della nuova, e il risultato è quello già ottenuto con lo sfascio della giustizia: computerizzata pure nei sottoscala e lenta più che all’epoca delle penne d’oca. 6. Modernizzare le relazioni industriali è cosa buona e giusta, ma quando Fiat l’ha fatto c’è stata la rivolta della Cgil, fortunatamente sommersa dal diverso avviso degli operai. Devono diminuire sia le protezioni dei lavoratori che la pressione previdenziale e fiscale, con un saldo attivo che si traduce in maggiore produttività.

Il governo non può dire che avrebbe voluto fare queste cose ma non ha potuto, a causa delle opposizioni, perché questa è una tesi meschina. Ma pensare che la soluzione consista nel chiamare a governare chi queste misure le ha sempre rifiutate non è neanche una tesi, è una baggianata.

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