Le divisioni politiche all’interno del governo, che i diretti interessati prima negano e poi condiscono d’insulti, pongono problemi costituzionali e di merito. Non alleggeriti dalle analoghe divisioni fra le opposizioni. Quella non è un’attenuante, ma un’aggravante per l’Italia. In fondo, da una parte e dell’altra, si segnala che da partiti divennero politicamente dei dipartiti, alla cui memoria s’intitolano dei comitati elettorali.
La tesi più gettonata dalle parti della maggioranza – ripetuta dal ministro degli Esteri e rilanciata da chi prova a fare il pompiere (da ultimo Lupi, che guida la quarta componente del governo) – consiste nel sostenere che la politica estera la fanno Meloni e Tajani, sicché Salvini può dire quello che gli pare. Non è così e fa a pugni con l’articolo 95 della Costituzione, oltre che con il modo in cui si è strutturata la compagine di governo.
La Costituzione stabilisce: «Il Presidente del Consiglio dei Ministri dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile. Mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei Ministri». L’ipotesi che ciascuno vada per i fatti propri, intessa rapporti internazionali a titolo personale e manifesti opinioni e indirizzi diversi è esclusa. Ma c’è di più: la Costituzione non prevede l’esistenza di vice presidenti, una volta istituiti i quali il dovere previsto da quell’articolo si deve però considerare assegnato al concerto fra loro e il presidente. Che poi è esattamente quel che avveniva, nella così detta Prima Repubblica, con il “direttorio” o il “consiglio di gabinetto”. Allora molti demagoghi – genitori dei populisti che poi spopolarono – li additavano quale segno di una degenerazione istituzionale, proprio perché prevedevano una collegialità della funzione presidenziale e inserivano nei governi un ruolo per i segretari dei partiti politici. Oggi sono i tre segretari di partito a sedere alla presidenza e alle vice presidenze, ma i critici d’allora si sono fatti afoni.
Le divisioni sarebbero niente e normale amministrazione politicante, se non fosse che si acuiscono per il loro concentrarsi sulla politica estera – ovvero una materia che richiederebbe un consenso superiore e non inferiore alla maggioranza – e si aggravano perché su quei temi si prova a giocare con le parole, oramai incapaci di maneggiare la sostanza. È singolare che si sia potuta osservare l’inopportunità che il riarmo sia denominato “riarmo”, suggerendo di chiamarlo in modo diverso. Dietro quella stucchevole questione nominalistica si nascondono l’incapacità e il mancato coraggio di rivolgersi all’opinione pubblica in modo schietto, raccontando le cose come stanno: non ce ne sarebbe stato l’urgente bisogno se non fosse che l’attacco armato della Russia non è un’ipotesi ma una realtà e che il mutato atteggiamento statunitense non è una sensazione ma il letterale significato delle parole pronunciate da Trump. Il resto son chiacchiere di chi prova a distinguersi senza riuscire a distinguere la realtà dai pregiudizi.
È ben lecito stare dalla parte di Putin, come lo è sostenere che si preferiscono gli schiaffoni della Casa Bianca alla difesa europea, ma si deve avere il coraggio di dirlo. Il governo sta dalla parte dell’Ucraina, di Trump, è fra i Volenterosi e approva la difesa europea, avendo nel proprio seno chi ritiene sbagliate una o due o tre di queste cose. Per andare avanti ha bisogno di diffondere fumogeni, con il risultato che rischia di inciampare a causa dei fumi che diffonde.
Il fatto che le opposizioni approfittino dei fumogeni per potere alzare la voce, senza che si capisca cosa stiano dicendo e sostenendo, conferma che si è al capolinea di una corsa sfrenata alla superficialità e alla contrapposizione senza sostanza. Accomunati dal provare a intortare l’opinione pubblica, drogandola con una contrapposizione che si soddisfa di sé. Colpa che si estende ai presunti chierici che prendono parte all’esercizio, pensandosi pure coraggiosi anticonformisti.
Davide Giacalone, La Ragione 25 marzo 2025
