Politica

Dire vs fare

Fra il dire e il fare c’è di mezzo l’incoerenza. Il governo che proclama il rigore fiscale, fino a praticare il linguaggio (si può dire populista?) del moralismo contributivo, è lo stesso che vara un condono. Riguarda gli immigrati e ha la seguente caratteristica: regolarizza i clandestini in cambio di pochi soldi, impegnandosi domani a versarne assai di più, quindi spostando debito sul futuro. Che è quanto rimproveriamo a molti governi del passato. Del resto è lo stesso governo che vara la riforma del lavoro, lasciando insoddisfatti tutti quelli che lo conoscono, ma poi si accorge che per non ammazzare le startup (ovvero le nuove imprese in avviamento) è necessario derogare alle regole appena stabilite. Tale incoerenza si deve al fatto che i professori non solo gestiscono il proprio dicastero tenendone lontani tutti gli altri colleghi, come se fosse roba loro e la Costituzione un cilicio solo per i politici, non solo mancano di visione generale, ma procedono a seconda delle pressioni che ricevono, dando un colpo al cerchio e uno alla botte, ma di due barili diversi. Con il che scassano sia il cerchio che la botte.

Il precedente condono, con annessa regolarizzazione dei clandestini (naturalmente criticato quale esempio di lassismo e incapacità), prevedeva mansioni specifiche e numeri certi, predefiniti. L’attuale vale per tutto e per tutti. Il risultato si saprà alla fine, secondo la dottrina del prof. Totò: è la somma che fa il totale. Più avrà successo più grande sarà il buco futuro. Ma c’è anche di peggio: meno avrà successo più sarà chiaro che gli immigrati non si fidano dello Stato italiano e del suo sistema previdenziale e pensionistico, preferendo intascare subito, mentre sia loro che i loro datori (irregolari) di lavoro neanche lo temono. Tale prodigioso approdo è stato possibile perché al governo è sfuggito un dettaglio: è da sciocchi criminalizzare i condoni, ma è da disperati farli senza modificare la normativa. Giacché, all’evidenza, se si condona vuol dire che non funzionava.

In quanto alle startup, sarebbe un errore disegnare un diritto del lavoro in deroga, per non ammazzare i neonati nella culla, perché quel che nuoce alla loro salute nuoce alla produzione in generale. Siccome si tratta di nuove assunzioni, ovviamente, si deve agire evitando di rinfoltire la giungla normativa, ma approfittandone per sfoltirla. Che dico: per raderla al suolo. Lo si può fare considerando crescenti nel tempo le garanzie, ovvero valorizzando la stabilità di lavoratori già addestrati e collaudati, aiutando le aziende a tenere collaboratori di valore. Tutti partano nella maniera più elastica e permeabile possibile, cancellando l’idea che uno debba dare garanzie all’altro (che non siano quelle del rispetto delle leggi), salvo consolidare il rapporto nel tempo. Se si mettono a punto diritti diversi per aziende diverse si ottiene solo il travestimento fraudolento, come già sperimentato nel passato: quante sono le piccole aziende che anziché diventare grandi si sdoppiano, triplicano e così via, pur di non accedere alla regolamentazione più rigida e ingestibile? E il diffondersi di queste pratiche rende non più vitale, ma meno promettente il nostro sistema produttivo.

Che politiche così dissennate siano state praticate dal mondo politico è segno della pochezza di quella classe dirigente e del dipendere patologico dal consenso odierno, salvo compromettere il futuro di tutti. Che siano adottate anche da chi i voti non deve e vuole prenderli, tanto comanda senza esserseli conquistati è segno, invece, di un guasto culturale profondo. Che diviene morale. Tanto che non si ferma neanche davanti al cattivo gusto. Vedere i politici in prima fila ai gran premi di formula uno o alle prime teatrali faceva arrabbiare. Vederci i presunti tecnici, magari accompagnati da chi sfodera la pistola pur di entrare, invece, fa ridere. Perché questa fregola di andare senza pagare, di parlare senza dire e di figurare senza essere è francamente ridicolissima.

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