Politica

Dopo il voto

Guardiamo a lunedì, sperando che arrivi in fretta. Non succederà nulla e non ci sarà un nuovo governo. Non è una previsione elettorale, ma una certezza istituzionale. Il nostro sistema ha tempi da bradipo: prima si riunisce il nuovo Parlamento, si formano i gruppi parlamentari, si eleggono i presidenti, quindi si avviano le consultazioni per la formazione del governo. Saremo ad aprile. A quel punto si dovrà eleggere il nuovo presidente della Repubblica. Lunedì, però, sapremo come si saranno distribuiti i voti, constatando che la somma dei primi due arrivati non farà la metà dei voti disponibili. Propongo un briciolo di saggezza: chi avrà un voto più degli altri faccia agli sconfitti l’offerta di cambiare, assieme, le istituzioni. Lo faccia subito, o sarà una corsa verso il disfacimento.

Sia che il vincitore della Camera (c’è per forza, per legge) abbia la maggioranza anche al Senato, sia che gli manchi, non cambia, perché quella stessa maggioranza sarà messa a troppo dura prova. Perché anche resistesse non lo farebbe operando, ma aggrappandosi al tempo. Il vincitore della Camera non ceda alla stupida tentazione di allearsi con qualche parlamentare transumante, magari accedendo a mercanteggiamenti non commendevoli. E’ stato l’errore commesso da Silvio Berlusconi a partire dal 2009, che segnalammo e detestammo. I frutti sono avvelenati. No, chi vince alla Camera governi, ma apra subito il cantiere che si sarebbe dovuto aprire nel novembre del 2011, quando l’unico compito dei partiti della maggioranza era quello di riformare la legge elettorale. Non vollero farlo, calcolarono in modo meschino, ora il diluvio grillino ne è l’effetto.

Non sto proponendo un governo di larghe intese. Non serve, anche perché le scelte da farsi sono già codificate fuori d’Italia. Che a questo ci siam ridotti. (A proposito, qualcuno salvi il non candidato Mario Monti, il quale propone proprio le larghe intese, sostenendo di caldeggiarle fin da quando erano, dice lui, un’eresia, ma dimenticando che il suo è un governo rettosi su tale maggioranza!). Serve che le cariche istituzionali non siano considerate bottino di guerra, come la sinistra le considerò nel 2006. Serve che i protagonisti del bipolarismo fallimentare mettano al lavoro un gruppo ristretto e, in tre mesi, portino all’attenzione del Parlamento una seria riforma costituzionale. Quel che si deve fare si sa, ma non si fa. Un andazzo che non possiamo più permetterci. Il vincitore che non ne fosse consapevole sarà presto travolto. Tornare al voto prima di quella riforma sarebbe una sorte greca, che l’Italia non merita. Tornarci dopo sarà un nuovo inizio, di cui l’Italia ha bisogno.

Politici che aspirino a essere statisti non dipendono dalla piazza e non campano titillandola, ma hanno il dovere di conoscerla. Guardatele, le nostre piazze, e ditemi se vi pare che il Pdl o il Pd abbiano, solitariamente, la possibilità di alcunché. Fuori dall’autodistruzione. Inutile prendersela con Grillo, che ancora porta molti al voto. Grillo è un allarme, ma non l’incendio. Che divampa comunque. E consentitemi di dire, essendo uno dei primi firmatari del manifesto di Fermare il Declino, che quell’operazione non solo aveva un senso, ma è stata capace di far vibrare corde importanti in un elettorato che sente il bisogno di liberarsi dal passato e affrancarsi dalla sudditanza alla spesa pubblica, alla concertazione, alla fiscalità moralistica. Un demone demenziale ha avvelenato quell’acqua, ma resta intatta la sete. Non ha senso compiacersi per lo sputtanamento di un concorrente, giacché il guaio grosso è l’assenza di risposte all’elettorato che le reclama.

Lunedì tutto questo sarà finito, ma nulla di affidabile sarà cominciato. Tocca alla politica ritessere la tela della Repubblica. O abbandonarsi a un’irresponsabile resa.

Pubblicato da Libero

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