Politica

Draghi, per vocazione o disperazione

Saremo la coda del ciclo elettorale europeo. Durezze e brividi ci sono stati ovunque, ma gli elettori europei hanno scelto con libertà e ragionevolezza. Nessuno ha interesse a che la coda sia avvelenata, benché appesantita dal più alto e coriaceo debito pubblico. Nessuno, fra gli europei, punterà a favore dell’instabilità, per il nostro Paese. Chi lo facesse, da fuori, si muoverebbe contro l’Unione europea e contro i successi della Banca centrale europea. Al tempo stesso, però, nessuno è disposto a giocarsi la testa per non perdere la coda.

E’ chiaro a tutti che mutualizzare i rischi è la via migliore per depotenziarli, ma lo è anche l’indisponibilità a farsi carico di vizi altrui. Ne hanno tutti. I nostri sono iscritti a bilancio e sono cresciuti anziché scendere. Le politiche europee sono state espansive non restrittive, ma l’Italia s’è fermata a meno della metà della crescita europea. L’Eurozona ha recuperato da tempo le posizioni pre-crisi, noi ci arriveremo, di questo passo, nel 2025. Possiamo chiedere comprensione, ma guai a giustificare la rassegnazione, considerandoci incapaci di cambiare.

Abbiamo punti di forza. Il cuore produttivo pulsa ed esporta, ma non basta. Il patrimonio pubblico è considerevole, benché inerte, mentre quelli privati costituiscono tentazioni da evitare. Non di questo parliamo, però, ma di quando e come votare. Salvo poi annaspare sia sulla data che sul sistema elettorale. Non è azzardato immaginare come andrà a finire: alla fine di un lungo periodo di frazionamenti il prossimo Parlamento, anche se s’adottasse il magichellum, non sarà abitato da una maggioranza omogenea, con cui comporre e reggere un governo. Il prossimo governo sarà di coalizione, come tutti quelli che lo hanno preceduto, del resto. Ma con una differenza: occorrerà coalizzare forze che agli elettori non si presentano come falsamente alleate, ma come esageratamente antagoniste. E andrebbe ancora bene, se andasse così, perché l’alternativa sarebbe coalizzare forze antagoniste dell’economia di mercato e della collocazione internazionale dell’Italia. Nel qual caso la coda sarebbe tagliata, liberandone il resto d’Europa.

I governi di grande coalizione non sono necessariamente un male. Possono essere l’opposto, se li si utilizza per neutralizzare la tentazione di ciascuno di usare la spesa pubblica per rafforzarsi e per corresponsabilizzare i componenti nel varare le necessarie riforme. Sono venefici, invece, se sommano i difetti di ciascuno, andando in direzione opposta. Nella condizione in cui siamo è temerario correre altri rischi. E allora? Allora si tratta di stabilire se al governo Draghi intendiamo arrivarci per vocazione o per disperazione.

Un governo di grande coalizione può essere un governo di scartine, affinché nessuno prevalga, o un governo di campioni, in modo da segnalare il cambio di passo. Può essere il governo della spartizione (delle spoglie), oppure quello della ripartenza. Può regolare i conti del passato o puntare a far crescere quelli del futuro. Può nascere dalla sconfitta di tutti, oppure dalla vittoria della ragionevolezza.

E’ suicida la corsa demagogica per prendere voti, con chi propone più pensioni, chi più reddito senza produzione, chi più bonus, magari è più efficace il contrario: basta perdere tempo e occasioni, serve il realismo. Non saranno flagelli, se concordati e non nascosti. Non saranno cose improponibili, se esposte agli italiani con buon senso governante e non con elettoralismo sbandierante. In tutta Europa gli elettori si sono dimostrati più assennati di tanta politica e tanta comunicazione. Non c’è ragione che non capiti anche da noi, a meno che non si ceda alla scorciatoia deresponsabilizzante di un illusionismo che non illude più. Fin qui i contribuenti devono alla Bce i più considerevoli tagli ai costi pubblici, ove se ne parlasse seriamente ci sarebbe disponibilità all’ascolto. Tutto sta a tenere il sale in zucca, anziché metterlo sulla coda.

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