E ora? Ora si va verso la fine della legislatura, che può portare a elezioni anticipate o alimentare un triennale strazio. Perché le riforme si allontanano e il tran tran governativo è doloroso. A convincermi di ciò non sono le novità delle ultime ore, ma l’assenza di novità negli ultimi mesi. Che la legislatura fosse mal messa, difatti, lo vedemmo già nella seconda metà dell’anno scorso, sembrandoci possibile un abbinamento fra elezioni politiche e regionali. Silvio Berlusconi, per convinzione o per forza (quirinalizia), archiviò l’ipotesi. Lo fece la sera del 13 dicembre, a Milano, parlando in Piazza Duomo, quando sostenne che la maggioranza era solida e il governo compattamente attivo. Fu un discorso mesto, l’annuncio di una rinuncia. La storia riservò una sorpresa: un violento deficiente scagliò un pesante oggetto contro il presidente del Consiglio, e quel gesto divenne l’immaginario compimento di una lunga campagna d’aggressione. Berlusconi espose il proprio sangue e la voglia di reagire, iniziando la ripartenza.
Adesso vi racconto quel che successe dopo, nel retrobottega della politica italiana: si cominciò a lavorare per far cadere il governo e mandare fuori gioco Berlusconi. Alcuni rimisero mano ai vecchi arnesi della macelleria giudiziaria, che saranno pure truculenti, ma quando colpiscono fanno male. Chi ha la cortesia di leggermi sa che considerai negativamente il “processo breve” e ritengo mal concepita la nuova legge sulle intercettazioni telefoniche. Il mio giudizio è negativo perché non sono soluzioni. Ma, al tempo stesso, non ho taciuto il problema retrostante, vale a dire il tentativo di far fuori il leader più votato con strumenti giudiziari, considerandolo non semplicemente un errore, ma più propriamente una follia. Gianfranco Fini ben conosce quella procedura, ed ha fatto male a ricordare il primo passaggio legislativo, atteggiandosi a difensore dei diritti di tutti, quasi che non c’entrasse con l’umore dei palazzi, dei quali, invece, è una delle componenti, come dimostra l’avversità ad una norma di elementare civiltà: la separazione delle carriere.
Ma andiamo avanti. Il Quirinale non ha fatto mancare il conforto, ai demolitori del governo. Lo ha fatto cercando di preservare la linearità costituzionale, esercitando in modo ruvido i propri poteri, non rinunciando alle punzecchiature, quando non alle stilettate, e lo ha fatto anche sgangherando i binari costituzionali, come quando ha ritenuto di argomentare circa una determinata firma, o apostrofando cittadini in piazza o andandoli a cercare su internet. L’attivismo di Giorgio Napolitano metteva in modo i compagni di classe d’un tempo. Tanto per dirne una: il telefono di Giuliano Amato ha messo a dura prova le batterie, comunicando, quasi quotidianamente, con i direttori dei grandi giornali e con l’eletto gruppo dei pensatori, che di pensiero fisso ne hanno uno solo: tornare a far qualche cosa.
Tutto questo doveva culminare alle elezioni regionali. Il centro destra non poteva perderle, se si fosse fatto riferimento alla precedente tornata, ma si poteva costruire la sensazione della sconfitta, basata sulla rimonta della sinistra nei luoghi dove la partita sembrava disperata. Nel Lazio, ad esempio. O in Piemonte, dove una buona amministrazione avrebbe dovuto arginare il leghismo. Quindi, chiuse le urne regionali e accertato il venir meno della spinta propulsiva della rivoluzione berlusconiana, per dirla alla Berlinguer, si sarebbe proceduto alla crisi. Invece è capitato che il condannato s’è messo a far campagna, portando a casa un risultato superiore alle più sconsiderate aspettative (con la Lega che mangia le carni della sinistra, in casa loro).
Attenti, però, perché questo modifica il copione della commedia, ma non la realtà. I cittadini che non sono andati a votare sono aumentati, e non è certo un segnale di fiducia. I problemi economici sono tutti lì, con il governo che può ben vantarsi di non avere ceduto alla voglia di spendere, ma non può farlo per altre iniziative, che sono mancate. I posti di lavoro si continua a perderli, e la cassa integrazione in deroga è costosa. Le tasse non scendono, anzi, a causa dei condoni, la pressione fiscale sul pil aumenta. E così via, come ho scritto e riscritto, venendo a noia. Metteteci sullo sfondo le riforme costituzionali, per giunta con la gnagnera delle larghe convergenze (quando la Costituzione, a volere leggerla e non solo sedercisi sopra, già dice tutto all’articolo 138). La domanda è: governo e maggioranza sono abbastanza forti da agire in queste condizioni, non per assecondare il galleggiamento, ma per imporre il cambiamento? I numeri rispondono: sì. La politica risponde: no.
Il documento della direzione Pdl stabilisce che ciascuno ha diritto di dire quel che pensa, poi si vota e tutti sono tenuti a fare quel che si è deciso. E questo è il vecchio e caro centralismo democratico. Né più né meno. Tralasciando le chiacchiere perse, la questione diventa determinante ogni volta che il governo pone la questione di fiducia, dove è evidente che i parlamentari della maggioranza che votano contro sono automaticamente fuori dalla stessa. Solo che il voto è segreto, ed a regolare quel traffico c’è il presidente della Camera. E’ chiaro, adesso, perché la situazione non può reggere? Umberto Bossi, con fiuto rabdomantico, lo ha capito e, per questo, cerca d’intestarsi la rottura. E lancia un segnale a quegli ambienti che, pur di accattivarselo, sono pronti a tutto, pure a violentare la Costituzione (come fecero, sciagurati, con la riforma del titolo quinto, nel 2001): il federalismo non ci basta più. Figurarsi, è come dire che si può subito chiudere baracca e burrattini.
Insomma, gira e rigira non è successo granché, e i problemi di adesso sono gli stessi che precedettero quel 13 dicembre. Le elezioni, allora come oggi, non sono la soluzione. Lo è ancor meno, però, far finta di niente e parlare d’altro.