Assistiamo all’eclissi del diritto e della politica, con un crescendo rossiniano di misfatti e strappi. Sembra d’essere dentro ad un gioco infermale, la cui regola è feroce e dissennata: vince il soggetto il cui avversario ha commesso il maggior numero d’errori. La cosa più grave è che la scena si svolge davati ad un pubblico di cittadini che rimane, al tempo stesso, attonito e indifferente. Si guardano gli schizzi di sangue, ma non si comprende il motivo vero del contendere: le parole non sono coerenti con i fatti. Si osserva la veemenza degli scontri, ma si ha l’impressione che politici e magistrati sappiano animarsi solo per se stessi. Il linguaggio che usano è durissimo, ma inversamente proporzionale al pensiero che esprime. Se fosse possibile, se non fosse ridicolo, verrebbe voglia di dire: calma, ragioniamo.
Le liste escluse per ragioni formali sono sempre esistite, quel che non s’era mai visto è una simile gazzarra. In Lombardia l’ufficio elettorale ha accettato un ricorso avverso la presentazione di una lista, quando, invece, la legge prevede che possano essere presentati solo ricorsi avverso l’esclusione. Se così non fosse, difatti, ogni volta, in ogni collegio, tutti presenterebbero ricorsi contro le liste di tutti gli altri. Un incubo autocomburente. Nel Lazio un cancelliere rifiuta di ricevere una lista, benché in ritardo, quando, al contrario, la legge gli impone di fare il contrario. Le regole sono state infrante alla prima casella. Il che, sia chiaro, non significa affatto giustificare delle leggerezze, o l’inqualificabile condotta dei vertici Pdl di Roma, ma, per avere ragione in diritto, occorre che si rispetti la forma.
A quel punto, comunque, poteva già vedersi la via d’uscita: in Lombardia la cosa si sarebbe sanata da sola, mentre nel Lazio era la destra a dovere ammettere l’errore e la sinistra a rendere possibile la via d’uscita. Invece ci s’è infilati in un tunnel degli orrori.
Il governo s’è mosso verso il decreto prima di avere chiesto la testa dei responsabili, dando, così, l’impressione di volersi autoassolvere. Sgradevole, molto. Poi è entrato in scena il Quirinale. In questi giorni è tutto un fiorire di devoti al Colle, con parole di miele. Invece credo che quello sia stato uno dei passaggi più pericolosi. Giorgio Napolitano ha assunto su di sé la rappresentanza dell’opposizione, altrimenti persa appresso all’estremismo viola, e ha iniziato una trattativa sul contenuto del decreto. Scusate, ma dove sta scritto, nella Costituzione, che il Presidente della Repubblica negozia il contenuto della potestà governativa? E non è finita, perché una volta emanato il decreto Napolitano ha preso la decisione di difenderne la forma e la sostanza, rispondendo pubblicamente a due cittadini. Ma, nella nostra Costituzione, il Presidente non solo non cerca consensi, non solo è silente e parla solo al Parlamento (con adeguata controfirma del ministro guardasigilli), ma non fa le veci del governo, quando c’è da spiegare un provvedimento d’urgenza. Colpevole, naturalmente, anche il governo, che non ha provveduto in anticipo e in proprio. Colpevoli gli amici della maggioranza, che ci tengono a ricordare che “il decreto legge porta la firma di Napolitano”. Ma come fate a non capire? Tutti i decreti portano la firma del Presidente, ovviamente, mentre sottolinearne una in particolare, per intimorire l’opposizione, equivale a mettere il governo sotto tutela. Autogol, insomma, con successivo esultare.
E arriviamo alle sentenze. Il decreto, dopo i tira e mola, esce “interpretativo”. Già è fastidioso che il governo del Paese finisca in mano ad un comitato di legulei e consiglieri di Stato, figuriamoci quando, inoltre, fanno cilecca. Il Tar, infatti, stabilisce che la legge regionale è prevalente. Fenomenale, considerato che a noi avevano insegnato il contrario e, per giunta, che il secondo e terzo comma del primo articolo della legge elettorale laziale (la numero 2 del 2005) stabilisce che per tutto quello che non si trova qui scritto si deve fare riferimento alla legge nazionale. Il pasticcio, insomma, arriva al punto d’esplosione quando dimostra che il diritto non esiste più perché i giudici stessi, quando non sono animati da faziosità, si sono smarriti nella giungla delle leggi, senza neanche saper consultare la bussola.
Il Consiglio di Statopotrebbe manifestare diverso avviso, ma, a quel punto, celebrate le elezioni, comincerà la discussione sulla loro legittimità. Inabissando quel che resta della credibilità istituzionale.
Questo, non altro, dovrebbe essere il centro della discussione. Invece ci sono due schieramenti, opposti, che puntano di continuo alla piazza. Sperano di riempirla, ma non sanno contro chi protestare. Il centro destra potrebbe sfilare sotto le finestre dei propri dirigenti romani, maledicendoli. Il centro sinistra potrebbe dare l’assalto a chi modificò il titolo quinto della Costituzione e, oggi, lo costringe ad accodarsi ad un gruppo di estrema destra, ovvero ai propri dirigenti di ieri e di oggi, che sono i medesimi. Quale delle due piazze radunerà più gente? Quesito avvincente, sfida affascinante.
Intanto la democrazia, trafitta per anni dalla giustizia penale, langue nei corridoi di quella amministrativa. Nella più totale incertezza del diritto, ma con una nuova e grottesca certezza: il sonno della politica genera ricorsi.