Politica

Emigranti straccioni

Ogni tanto si sente si sente qualche politicuccio parlar di razza, o di difesa della nostra civiltà dalle masse di delinquenti che vogliono assaltare le nostre coste e le nostre terre.

Ed un conato di vomito sale imperioso. Non ne abbiamo ancora represso il sapore acido, che un altro prende la parola per esaltare il valore dell’accoglienza, quasi che il problema dell’immigrazione possa essere maneggiato considerandolo una sorta di soccorso ai bisognosi. Gli uni e gli altri, per rendersi visibili, si danno sulla voce, chi esaltando ci aborrendo il razzismo. Poi tornano a casa e, come un grandissimo numero di famiglie italiane, raccolgono i pargoli dalle braccia della filippina, o salutano l’anziana madre, affidata alle cure di un cingalese. Forse credono di essere diversi dagli altri italiani, ed invece ne rappresentano lo stereotipo deteriore.

Il nostro è un popolo d’emigranti. Se ne è dimenticato il sistema dell’informazione, se ne è dimenticato un mondo politico che si gonfia il petto per essere parte del G8 (un mondo che non ricorda nemmeno come ci siamo entrati, nel G7), ma non se ne dimenticano le persone, le famiglie. Dicono che gli immigrati portano la delinquenza. Mi vien da ridere. Nella mia famiglia siciliana avevamo (ora è fra i più) un lontano parente che era emigrato negli Stati Uniti, ?u zu Sam. Ci ho messo qualche anno a capire che Zio Sam non era il suo vero nome, ma l’onorificenza conquistata a Broccolino. Aveva fatto qualche soldo commerciando alcool, e non so se dagli USA tornò in pace con la legge di là. So che volle prendere moglie al paese, per esser sicuro che fosse illibata. Solo che gli anni erano passati, ed un’illibata attempata poteva riservare qualche sorpresa. Leggenda vuole che la zia non fosse mattocchia di suo, ma lo sia diventata dopo la prima notte di nozze. Ci si ride e ci si scherza, ma ?u zu Sam era partito come carne da macello, e se era tornato con qualche dollaro (pochi, ma tanti per un paese che non aveva ancora l’energia elettrica) lo doveva, forse, ad un non troppo scrupoloso rispetto delle leggi americane.

Forse sono i più giovani a non sapere queste cose, perché si tende, sbagliando, a non raccontare loro cosa erano le loro stesse famiglie. Blasonati con i denari, si tende a non raccontare la miseria dei meridionali, la fame dei veneti; si tende a dimenticare gli anni in cui le cameriere erano sarde, non filippine. A loro, non meno che ai loro genitori, ma ancor più a quei politicucci che parlano di razza (ricordandoci, se non altro, che son bastardi) farebbe un gran bene leggere il lavoro di Gian Antonio Stella: “L’orda, quando gli albanesi eravamo noi”, edito da Rizzoli. Ha fatto bene anche a me, perché vi ho trovato una miniera di notizie interessanti e d’umanità dimenticata, utile per una riflessione che riprenderò in conclusione.

Leggete questa cronaca: “Tra i ponti della nave, che è un rottame, varie donne giacciono moribonde, divorate dalla febbre. Due di esse sono giovanissime, tra i diciotto e i venti anni. Una mi ha mostrato un bimbo in fasce che era un piccolo scheletro vivente, sul punto di irrigidirsi nella morte”. Scritta da un giornalista italiano commosso alla vista degli albanesi? No, scritta da un giornalista australiano alla vista degli italiani (Sydney Morning Herald, aprile 1881). Sì, dirà qualcuno, noi italiani emigravamo per la fame, andavamo altrove a lavorare, ma a lavorare, non a rubare, non a fornire carne per il mercato della prostituzione. Davvero?

Noi, le nostre donne, le abbiamo vendute in Egitto e Turchia, in bordelli che dovevano far sembrare rilassante l’inferno. A questo fenomeno dedicò uno studio, all’inizio del secolo scorso, la Nuova Antologia, parlando apertamente degli italiani che facevano traffico di passaporti falsi per esportare donne destinate alla prostituzione: una volta arrivate a destinazione veniva tolto loro il passaporto. Ed il Corriere della Sera del 29 novembre 1901 scrive: “Oltre alla tratta dei fanciulli diffusa nelle provincie di Terra di Lavoro e Campobasso per cui i prefetti ebbero ordini di esercitare attiva sorveglianza, si scoprì un’altra più ignobile speculazione basata sui matrimoni. (?) Si scopersero individui i quali sposavano le più belle contadine del luogo per poi condurle a Londra dove tutto era preparato per speculare sulla loro immacolatezza”. Sapete qual era la promessa che veniva fatta alle giovani esportate? Andrete, si diceva loro, a lavorare presso famiglie perbene. Ricorda qualche cosa?

I bambini, ci siam venduti pure quelli. Se ne occupò Luigi Einaudi, che poi sarebbe divenuto Presidente della Repubblica. Era un giovane economista, e calcolò che a Saint-Romain le Puy, tal Rizzi, incettatore di bambini, ne impiegava 27, con un profitto annuo di 16.000 lire, vale a dire il valore di mercato di 160 bambini. Valeva cento lire, un bambino. “Lavoravano tutti ?scrisse Einaudi-, ogni giorno, da 12 a 16 ore consecutive, uno, Antonio Cima, aveva lavorato 36 ore di seguito; per nutrimento non avevano, lungo la settimana, che pane duro e minestra immangiabile, una broda con pasta corrotta e condita col sego; alla domenica soltanto un bicchiere di vino cattivo e salsicce o altra carne putrefatta; ogni cinque avevano un letto, e così pullulante di insetti che i ragazzi preferivano dormire alla vetreria sopra un mucchio di paglia; due ragazzi piccoli, di dieci anni, con bruciature ai piedi, non erano registrati o ci erano stati nascosti”. Quando uscivano dalla vetreria “avevan l’aria stanca, sfinita, che muoveva a pietà: scarni, con larghe bruciature, chi alle gambe, chi sul collo, chi sul viso. Camminavano zoppicando, strascicando i piedi come fossero vecchi cadenti”. E per forza, stavano tutto il giorno davanti alla bocca di un forno, dove la temperatura era di 1400 gradi. Uno dei bambini raccontò: “La sete era tale e tanta, nella vetreria, che bevevamo due bottiglie di acqua ognuno di noi ogni ora e la sete non finiva mai!” Li abbiamo mandati lì, i nostri bambini, nelle vetrerie francesi, in Baviera, in Austria, Ungheria, Croazia, a Pittsburgh, dove una giornalista trovò italiani di otto anni.

E mica solo in vetreria. In miniera, a lavorare in cunicoli ove nessun adulto sarebbe riuscito ad infilarsi, per poi portar su il carbone a spalla. A fare gli spazzacamino a Parigi, il che non aveva nulla di spensierato e romantico: li nutrivano poco affinché non crescessero e riuscissero per un tempo più lungo ad arrampicarsi su per il camino. I Matarazzo, in Brasile, avevano avuto l’attenzione di far telai su misura per i bambini: lavoravano di più e costavano di meno.

Questi bambini mica erano stati rapiti, no, ce li portavamo noi. Lo so che non si dovrebbero fare citazioni troppo lunghe, che il lettore si annoia. Si annoi pure, ma prima ascolti quel che ha raccontato un bimbo, Basilio Guerra: “Fui svegliato alle sei di mattina. Mia madre mi vestì, mi infilò delle caldarroste in tasca e un sacchetto sotto il braccio e insieme a mio fratello maggiore mi trascinò per la strada della Cannobina. Dopo una decina di chilometri avevo le fiacche a un piede (?) allora mio fratello mi infilò dentro un gerlo che aveva sulle spalle e mi portò fino a Cannobio. Era la prima volta che vedevo il lago. (?) Al battello un signore ci attendeva. Si scambiarono poche parole, poi mia madre, all’improvviso, mi strinse forte da farmi male. Sentii che aveva la faccia bagnata. Il battelo si mosse, per un po’ vidi tante mani alzate, vidi mia madre, poi tutto sbiadì come in una nebbia, non vidi più nulla”. Basilio, piccolo da stare in un gerlo, andava a fare lo spazzacamino a Parigi. Gli impedivano anche di lavarsi, ed i parigini dicevano: ma guarda che schifo ?sti bimbi italiani. Italiani, italiani come Dante: e se di questo non piangi, di che pianger suoli.

Avevamo anche i nostri scafisti assassini, che non operavamo sui mari, ma sui monti. A La Thuile arrivavano i candidati all’espatrio clandestino, con le scarpe da passeggio e coperti alla meglio. I passeur incassavano il pagamento, portavano su, alla bene meglio, gli espatriandi e, poi, una volta in discesa, indicavano loro la strada e li lasciavano al loro destino. Che è come buttar giù dal motoscafo chi non sa nuotare, sia pure in vista della costa. Le guide chiamavano “fenicotteri” i loro clienti, perché ad un certo punto spiccavano il volo. Erano italiane, le guide. Chi non scivolava nel crepaccio, chi riusciva ad arrivare sul suolo francese, se incontrava le guardie veniva posto davanti al dilemma: rimpatrio forzato o legione straniera. Noi, oggi, non offriamo la seconda possibilità.

Di delinquenza esportata non è neanche il caso di parlare, che, negli Stati Uniti, abbiamo fatto scuola.

Storie, dirà qualcuno, di più di un secolo fa. Davvero? In Svizzera, nella civile, pulita e tranquilla Svizzera, il razzismo contro gli italiani è roba dei nostri anni. Sentite queste parole di Schwarzenbach, un politicuccio che, come i nostri, non era privo di consensi: “Gli italiani sono venuti qui per evitare agli svizzeri i lavori più pesanti: ma ecco che, dopo due, tre, cinque anni cominciano ad aspirare a posti più comodi, fanno studiare i figli ?..”, siamo negli anni settanta, qualche giorno fa. E, del resto, è del 1971 la notizia di una procedura di espulsione a carico di due operai italiani che si erano permessi di scioperare, simbolicamente, per quindici minuti, e non per rivendicazioni salariali, ma per ricordare un loro collega che era stato ammazzato a calci e pugni.

Ed è del 1992 il libro Versteckte Kinder (bambini nascosti), che racconta la storia di bambini cresciuti senza potere uscire di casa, visto che erano arrivati clandestinamente in Svizzera, per unirsi ai loro genitori. Bambini segregati, per non rompere l’invidiabile ordine che regnava e regna colà. Circa tremila bimbi, verso la metà degli anni settanta, colpevoli di essere stranieri, italiani.

Ecco, questa è una parte della nostra storia, della nostra identità, siamo noi che abbiamo aggirato le frontiere, che abbiamo violato le norme che contingentavano l’emigrazione, che siamo stati clandestini; e siamo sempre noi quelli che vogliamo riservare lo stesso identico trattamento agli altri. E che significa, tutto questo? Si vuol forse sostenere che un popolo d’emigranti, un popolo che ha esportato lavoro, tanto lavoro, ma che ha anche esportato prostituzione, pedofilia, droga, delinquenza, non ha il diritto di difendersi da chi vuole portare questo ed altro? No, semmai si potrebbe anche sostenere il contrario, si può sostenere che l’emigrazione forzata, spinta dal bisogno, è sempre e per tutti una cosa tragica, che comporta, quasi automaticamente, l’essere accolti come estranei, magari come un pericolo, e questo vale anche se gli emigranti, italiani di ieri extracomunitari di oggi, sono preziosi per l’economia dei paesi dove approdano.

L’avere subito la discriminazione non c’impedisce affatto di volere controlli alle nostre frontiere, né sarebbe possibile immaginare il contrario. Ma quel controllo non può e non deve essere condito con neanche un briciolo di razzismo, o di pretesa superiorità nei confronti di chi bussa alla porta, o cerca di aggirarla. Questo non abbiamo il diritto di farlo, perché si vendettero all’estero nostro nonno e nostra nonna, e qualche volta fu venduto nostro padre. Di questo passato non dobbiamo affatto vergognarci, perché è anche grazie a quegli immani sacrifici che la realtà d’oggi è diversa.

Chi, oggi, parla d’immigrazione solo come fosse un problema di ordine pubblico, chi parla di immigrati solo come fossero disturbatori della nostra quiete, o ladri del nostro lavoro e del nostro benessere, chi guarda ai loro tuguri condannando tanta mancanza di decoro, chi non vuol vedere i loro bambini al fianco dei nostri, chi li immagina schiavi senza diritti, ecco, chi la pensa a questo modo non è degno di nostro nonno e di nostra nonna, che ebbero più onore e coraggio.

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