Politica

Errori e uscite

Nominare Aldo Brancher ministro, senza avere precostituito le deleghe, senza avvertirlo di non utilizzare il legittimo impedimento come primo atto e senza averne valutato le conseguenze, è stato un errore. Indurlo alle dimissioni, come l’accettarle in tutta fretta, incombente una mozione di sfiducia, è stato un errore al quadrato. Fargliele presentare in tribunale, sbracando nella forma e nella sostanza, sovvertendo l’ordine istituzionale e della sovranità un errore al cubo. Considerato quanto sia stata fantozziana l’intera operazione, diciamo che la settimana dei grandi chiarimenti si apre all’insegna della fuga e della confusione. Anticipo quel che vedo: 1. la rottura fra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini è irrimediabile; 2. le elezioni anticipate non sono un’uscita di sicurezza; 3. le ipotesi di grandi coalizioni e governi d’emergenza sono impraticabili.

La rottura è definitiva perché il logoramento e lo sbriciolamento di una maggioranza parlamentare così vasta, conquistata dopo il proclama del predellino e dopo che Fini aveva già manifestato l’intenzione di restare fuori, può produrre tremula acquiescenza, nel timore della crisi, o tremebonda vendetta, ma non può portare al rinnovarsi dell’alleanza. Se tornassero in pubblico a chiamarsi “Gianfranco” e “Silvio” si vedrebbe che non ci credono e, comunque, non ci crederebbero i loro elettori. Oramai, chi crede che il governo abbia il diritto-dovere di governare vuole la testa dell’uno, e chi ritiene che la politica italiana non possa reggere leaders troppo ingombranti chiede, in variopinta compagnia, la testa dell’altro.

La faccenda poteva, forse, essere gestita in modo diverso. Non era difficile prevedere che facendo campagna acquisti fra le truppe finiane si sarebbe consegnato il loro ex condottiero a far da sponda ai tanti poteri deboli (quelli forti non esistono più) che pretendono di regnare senza farsi votare. Ora, comunque, la pappa è fatta, non resta che scodellarla.

Le elezioni potevano essere una via d’uscita se cercate, non se subite. Forse c’è stato un momento (ne scrivemmo) in cui si potevano girare le carte davanti agli italiani, che, tanto, l’impantanamento della maggioranza era già nelle cose. Constatabile, più che prevedibile. Si poteva dire: andare avanti così serve solo a conservare la poltrona, volendo fare di meglio, però, occorre più forza. E si sarebbe dovuto farlo, forse, prima che la crisi mordesse davvero. Votare da ora in poi (e anche questo lo scrivemmo) significa pagare il conto della crisi più quello dell’autodisfacimento. E’ vero che la sinistra è messa a tocchi e che ancora deve restare incinta quella che partorirà un leader degno di questo nome, ma anche gli elettori di centro destra ne hanno le scatole piene.

In quanto alle larghe intese, di cui si favoleggia, mi domando come potrebbero reggere e a che servirebbero. Insomma, il centro destra si sfascia se lasciato da solo, ma i suoi capi si ritrovano al desco se si allarga il tavolo anche a qualche giustizialista destrorso che sventola le bandiere della sinistra? Oppure si fa fuori un pezzo della destra e se ne mette dentro uno della sinistra? Quali? Se si tengono dentro Berlusconi e D’Alema si rifà la bicamerale, film già visto (di buona qualità, ma senza lieto fine). Se ci rimangono Fini e Di Pietro le truppe parlamentari della sinistra sarebbero tenute a sorreggere quello contro cui i loro padri, che si rivoltano nella tomba, si batterono. Che si faccia l’una o l’altra cosa (non ci credo) resta da stabilire la cosa più comica: posto che la riforma del titolo quinto della Costituzione ha scassato lo Stato e i conti pubblici, che la votò la sinistra e che servì a far concorrenza ai leghisti sul terreno del federalismo, il nostro buon governissimo che fa, innesta la marcia indietro e si schianta o si lancia in quarta nel dirupo? Tutto questo senza considerare un dettaglio, che al Quirinale dovrebbero tenere presente: abbiamo votato con il premio di maggioranza, ci sono parlamentari che si trovano seduti nei due emicicli sulla base di un’alleanza, gradita agli elettori, che ne facciamo? Avviamo il trasformismo, tanto per festeggiare con rimembranze il centocinquantenario?

No, le alternative serie sono due: a. Berlusconi, che ha una passione per la botanica, si dedica ad una seria potatura della maggioranza, non limitandosi a diserbare la gramigna, indispettendo gli incompetenti ma rafforzando radici e fusto, ridefinendo anche la missione immediata del governo e evitando di darsi ancora, con voluttà, la zappa sui piedi, di modo da assegnare un senso al procedere, così come, eventualmente, alla caduta; b. il colpo di palazzo riesce e s’insedia un governo che sarebbe definito “tecnico”, ma che, in realtà, sarebbe un esecutivo che prescinde dalla maggioranza parlamentare e dal voto degli italiani, un commissariamento della democrazia, finalizzato a raddrizzare brutalmente i conti e gestire le elezioni, nella speranza che i pochi mesi di vita favoriscano la morte del berlusconismo.

C’è la terza via, molto italiota: nulla di tutto questo, ma si tira a campare, sperando che scoperchiare la tomba di Renatino De Pedis serva a distrarre gli italiani e a discettare sul fatto che in Vaticano non ci sono solo pedofili. Ecco, in questo caso godetevi l’afa, perché l’autunno-inverno diverrebbe una schifezza.

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