Politica

Eurobersaglio

Le riforme profonde del mercato interno, l’eliminazione dei privilegi, anche con riferimento ai così detti “diritti acquisiti”, il taglio della spesa pubblica corrente e l’abbattimento del debito pubblico (mediante dismissioni ragionate, non vendendo subito il meglio e tendendosi il resto sul groppone), sono cose che devono essere fatte comunque, per alleggerire il carico fiscale e liberare produttori e consumatori. Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea, parlava in inglese e al Parlamento europeo, ma le sue parole sono incontrovertibili anche tradotte nell’idioma natio e rivolte al governo e al Parlamento nostrani. Nessuno creda che ciò che si deve fare per restare nell’euro si potrebbe non farlo uscendone.

Non è affatto escluso che l’euro esca dalla storia, ma uscire dall’euro sarebbe una tragedia. Da più parti s’invoca l’uscio, supponendo di poter portare fuori le proprie trippe ed esporle alla benefica brezza ossigenante della svalutazione. Chi la pensa a questo modo ha confuso i mondi e le epoche, crede di potere navigare la globalizzazione con le protezioni della vecchia guerra fredda, di potere fare il furbo mettendo la propria sicurezza in conto altrui. Non si rende conto di quali sarebbero le conseguenze economiche. Ma anche politiche.

Quando andava di moda l’eurosubordinazione, quando, prima di sorbire il the, sollevando il mignolo, la pubblicistica per benino si crogiolava nel: ce lo chiede l’Europa e quanto ha ragione l’Europa, signora mia, noi scrivevamo che così non regge. Si schianta. L’euro va verso la sua fine, se non si cambia rotta. E se finisce l’euro salta l’Unione europea, riprecipitandoci due secoli indietro, senza neanche farci mancare il rancore verso la germanica politica di potenza. Per questo non abbiamo concesso nulla agli adoratori del dio spread, ricordando loro che quell’indicatore non segnalava la scarsa affidabilità di questo o quel governo, ma la cattiva salute istituzionale dell’euro. Elencavamo anche le soluzioni. Trattenevamo a stento la rabbia nel vedere i nostri governi non all’altezza dell’interesse nazionale. Che poi era anche quello europeo. Ora, però, sono troppi quelli che credono sia l’euro l’unico problema, cancellato il quale si riprende la cittadinanza di Bengodi. Sciocchezze.

Per restare dentro l’euro, vale a dire per mantenere la competitività in mercati globalizzati, dobbiamo fare quel che abbiamo irragionevolmente rinviato. Ma se uscissimo dall’euro dovremmo farlo ancora prima e moltiplicato per due. Se affrontassimo i marosi sul guscio di una moneta nazionale, portandoci dietro le citate zavorre, affonderemmo prima ancora di far ciao verso riva. E se pensassimo di rimediare svalutando brutalmente, in questo modo guadagnando competitività (come sento ripetere), l’effetto sarebbe l’abbattimento della ricchezza delle famiglie, una patrimoniale micidiale sul risparmio, lo schizzare in alto del debito in euro (pubblico e privato) e un costo pazzesco delle materie prime.

Dal 2011 a oggi l’Italia produttiva s’è retta grazie alle esportazioni, che sono cresciute ben più di quelle tedesche. Tale risultato, ottimo, lo abbiamo conseguito vivente (si fa per dire) l’euro. Significa che le aziende adeguatesi alla globalizzazione non hanno bisogno di svalutazioni. Semmai di credito e alleggerimenti fiscali. Due cose non solo impossibili, ma contraddittorie con l’idea di tassi in crescita per svalutazioni e inflazione.

Se oggi si chiedesse dell’euro ai popoli è possibile che traballi, in Italia come in Germania. E quando interessi opposti hanno bersagli comuni è segno di non poca confusione. Vincerebbe, invece, e alla grande, nei paesi dell’est Europa. Perché per chi ha conosciuto la miseria e l’oppressione l’euro, con tutti i suoi gravissimi difetti, è un ancoraggio alla libertà e alla ricchezza. Noi non abbiamo conosciuto quel genere d’incubo (grazie a Yalta), ma perdere l’ancoraggio ci consegnerebbe ai mostri della nostra storia: clientelismo, arraffoneria, sprechi, mantenimento di nullafacenti a spese collettive. Qualcuno è così sciocco da non vedere quale sarebbe il prezzo, economico, ma anche politico e culturale, di una simile avventura?

Noi dobbiamo essere pronti all’eventualità che l’euro salti. Perché non è esclusa (ragione di più per non mollare Bankitalia alla carnevalesca public company). Abbiamo il diritto di far valere gli interessi italiani, visto che abbiamo finanziato l’Europa ben più dei tedeschi e, al netto di un debito esagerato (che ci consuma) abbiamo il più lungo e massiccio avanzo primario dell’Unione. Ci sono materie dove siamo i primi della classe, e non è la ginnastica. Ma chi liscia il pelo alle paure collettive, raccontando la favola dell’uscita dall’euro quale chiave per liberarsi dalle catene dei vincoli, è incapace di vedere il contesto, o di valutarne le conseguenze. Ammesso che sia in buona fede. In ogni caso accarezza un mostro dal quale sarà divorato.

Pubblicato da Libero

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