Politica

Europee senza Europa

Manca un mese e mezzo alle elezioni europee, ma la campagna elettorale è già impostata. A leggere slogan e manifesti, a sentire i discorsi che si fanno, sembra che per tutto ci s’appresti a votare, tranne che per il Parlamento Europeo.

La tesi dei capi partito è la solita, questa volta sorretta dalla falsa professionalità dei consulenti d’immagine: dell’Europa non importa niente a nessuno, e le prossime elezioni sono solo un test sulla tenuta del governo e sugli equilibri interni alla maggioranza ed all’opposizione. E siccome così stanno le cose, noi sappiamo già che i risultati elettorali saranno discussi, con gran concitazione, per circa una settimana, poi, aperto l’ombrellone, anche quello sarà un passato da dimenticare.
Questo è uno degli effetti del depauperamento della politica, ridotta ad appiattimento sondaggistico per i grandi ed a trovata giullaresca per i piccoli in cerca di visibilità: non producendo idee non attira interesse, quindi non trasmette conoscenze. Quella che un tempo si chiamava “educazione civile”.
Invece, l’Europa, c’entra, eccome, con il futuro degli italiani, del loro portafoglio, della loro sicurezza, della loro vita collettiva. L’allargamento di maggio, immediatamente riflesso sulla nuova assemblea di Strasburgo, conferma l’Unione come il mercato interno più numeroso e più ricco che ci sia al mondo. Al tempo stesso, però, è il mercato interno che vede crescere sempre meno il proprio prodotto e, al contrario degli Stati Uniti, non è dotato di nulla che lontanamente somigli ad una politica estera, ad una politica economica, ad una politica interna. E’ una grande e ricca area che si è data una moneta unica (ma che alcuni dei suoi soci di prestigio hanno deciso di non utilizzare), ed elegge un Parlamento, nel quale i popoli inviano rappresentanti di cui si dimenticano per quattro anni. Al termine dei quali se ne ricordano solo perché i loro bei faccioni sono lì, ridenti, a sollecitarne il rinnovato consenso.
Nel frattempo alcuni paesi dell’Unione sono militarmente presenti in zone ove si è cacciata la dittatura, mentre altri ritengono un errore quella missione. Alcuni dei partecipanti si ritirano perché, colpiti dal terrorismo, preferiscono star dalla parte di chi chiede di partecipare agli affari post bellici, piuttosto che da quella di chi è nel mirino della rappresaglia.
Nel frattempo i paesi più grandi, come Francia, Germania ed Italia, fanno molta fatica a rispettare i rigidi vincoli economici che l’Unione si è data, e rischiano di pagare con la recessione quel rispetto; mentre i paesi più piccoli, e segnatamente i nuovi entrati, trovano uno splendido mercato interno nel quale far valere il dinamismo e la competitività di chi non è appesantito da lunghi anni di stato sociale e protezione dei diritti dei lavoratori.
Intendiamoci, non sostengo affatto che l’allargamento sia negativo, o che, addirittura, sia negativa l’Unione Europea. Sono, anzi, convinto del contrario. Ma solo a condizione che vi sia consapevolezza delle difficoltà e delle opportunità, che si sappia rimediare ad un terribile deficit istituzionale, neanche per sogno compensato da una bislacca integrazione bancaria.
Di questo dovrebbe occuparsi la politica, a questo dovrebbe essere dedicata la campagna elettorale. Invece niente, la solita minestra riscaldata, condita con un filo d’europeismo beota. Quello stesso europeismo che, in queste condizioni, figlierà forze politiche che dell’opposizione all’Unione ed all’integrazione faranno la loro bandiera.

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