Politica

Europei vs Europa

Se i popoli europei fossero chiamati, oggi, ad un referendum sull’Europa è largamente probabile che l’espressione tornerebbe ad essere meramente geografica. A favore dell’Unione resterebbero, forse, solo i Paesi dell’est, che fino a pochi anni addietro subivano la violenza di un sistema dittatoriale comunista. Dentro l’area dell’euro è prevedibile che il rifiuto raggiunga vette prima inimmaginabili. I francesi, del resto, hanno già votato contro l’Europa, rigettando una Costituzione stilata sotto la guida di un loro ex presidente. La stessa cosa hanno fatto gli olandesi. Dei tedeschi ha detto il loro ex cancelliere, Gerhard Schroeder. Sui greci c’è poco da fantasticare, dopo i tagli vigorosi a stipendi, pensioni e spesa pubblica. Anche gli italiani non ci penserebbero due volte. Alla faccia di tanta retorica e tanti entusiasmi.

Se, però, s’interrogano statisti degni di questo nome e osservatori non superficiali o emotivi, in ciascun Paese, tutti risponderanno che l’uscita dalla grave crisi richiede d’imboccare la direzione opposta, vale a dire una maggiore integrazione, che sia anche politica e fiscale. La qualità delle classi dirigenti, la nostra, ma anche quelle altrui, si misura nella capacità di sostenere e far valere la ragione e la convenienza, contro l’emozione e la paura.

I benefici dell’Unione Europea non possono essere tali da essere percepiti solo dalla generazione che ha vissuto la tragedia di due guerre mondiali. L’Unione non può esistere solo per regolare i conti con il passato, deve potere parlare al futuro, conquistandosi il consenso nel presente. L’area dell’euro ha vissuto a lungo con una moneta forte e tassi d’interesse bassi, che hanno favorito la sostenibilità dei debiti pubblici, ma anche di quelli privati. L’errore strutturale, il guasto iniziale che non è stato corretto, consiste nell’avere fatto nascere autorità monetarie incaricate di fronteggiare un solo male: l’inflazione. Quando s’è presentato il rallentamento della crescita e ha morso la recessione i popoli dell’euro si sono trovati senza politica economica e strumenti per farla valere. Né poteva essere diversamente, perché quegli strumenti esistono in tanto in quanto c’è integrazione politica e fiscale, altrimenti esiste solo il ruolo vigile e punitivo, che diventa inutile quando le vittime sono travolte da forze non governabili. I mercati hanno compreso, dopo la crisi greca, che era possibile arricchirsi puntando le fiches su quella debolezza, quindi chiedendo sempre più soldi per prestarne a chi era in difficoltà. Non c’è dubbio che esistono responsabilità nazionali, come quelle dei greci, ma nel nostro caso occorre ricordare che il deficit è stato assai compresso, fino ad ottenere un avanzo primario, mentre il debito pubblico era fuori dai parametri fin dal primo momento. E non era un segreto.

Quindi, o si torna indietro, ridotandoci di monete nazionali che si possono svalutare, o si va avanti, federalizzando (vi sono vari sistemi) i debiti e le politiche. La prima via è solo apparentemente facile, in realtà comporta un costo, per ciascun cittadino, superiore a quello di una patrimoniale secca. La seconda, più razionale, sfida l’umore degli elettorati. Lo ripeto: questo è il banco di prova delle classi dirigenti.

Da noi c’è un governo che ha cercato di minimizzare i rischi, fino a trovarsi commissariato e obbligato a provvedimenti che sono all’opposto del suo programma di partenza. C’è un’opposizione che farnetica di troppo rigore, laddove, semmai, si corre il serissimo rischio che non sia sufficiente. Ci sono industriali che reclamano riforme, ma poi s’accordano con i sindacati per mitigare non solo quelle che si fanno, ma quelle che gli stessi lavoratori hanno già accettato, con referendum aziendali. Ci sono sindacati che difendono molto gli interessi dei pensionati, poco quelli dei lavoratori e per nulla quelli dei più giovani. Un’affollata congrega d’irresponsabili che cerca popolarità battendo il terreno meno propizio agli interessi collettivi. Anche altrove (si pensi alla stessa Germania) le cose non vanno bene. Non solo, però, il mal comune non fa mezzo gaudio, ma quel che più manca, in Italia, è la voce di chi non parla latrando per spirito di parte, ma sia capace di spiegare come stanno le cose e che i problemi non si risolvono né mandando a casa né conservando altrove il Tizio o il Caio. Siccome l’ipocrisia non mi piace, lo dico in modo più schietto: facendo fuori Berlusconi, o conservandolo dove si trova, non si risolve un accidente.

Le riforme strutturali, le privatizzazioni e le liberalizzazioni, che sono necessarie per rilanciare la crescita e favorire l’integrazione europea, non sono gite giulive, da tutti apprezzate, ma operazioni dolorose e promettenti, che richiedono idee chiare e mano ferma. Prima ancora, però, il coraggio della verità. Che scarseggia.

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