Se ci si spinge oltre la superficialità delle contrapposizioni politiche, se si riesce a superare la fitta coltre delle fastidiose esagerazioni propagandistiche, si può cogliere il senso delle cose che si accingono ad accadere e rendersi conto di quanto certe raffigurazioni teatranti siano lontane dalla realtà.
Due punti ci aiutano a provarci: l’idea che il governo Meloni possa non essere il governo di tutti gli italiani e la supposizione che i poteri del Quirinale debbano essere ricondotti al dettato costituzionale. Due sciocchezze. Che rimangono tali anche se trovano propalatori animosi e altolocati.
In una democrazia è del tutto ovvio che quanti hanno votato per i partiti di maggioranza apprezzino maggiormente il governo, rispetto a quanti hanno dato il loro voto a partiti che si ritrovano all’opposizione. Questo non significa che fra i primi vi siano solo zucconi per cui tutto quello che fa il governo è giusto e fra i secondi vi siano solo i loro colleghi, per cui è tutto sbagliato. Il che non toglie che ogni legittimo governo della Repubblica – come legittimi sono stati tutti i governi succedutisi dopo l’emanazione della Costituzione – sia il governo di tutti gli italiani.
Ma, a parte la questione formale, ci sono anche aspetti sostanziali.
Il governo Meloni si trova davanti tre appuntamenti con la storia: a. la realizzazione di quanto previsto dal Pnrr e finanziato dai fondi europei Ngeu; b. la negoziazione delle modifiche all’europeo Patto di stabilità e crescita; c. l’impostazione del negoziato – si vedrà poi se anche la sua conclusione – per l’allargamento delle materie su cui sia possibile, in Unione europea, votare a maggioranza (senza il vincolo dell’unanimità e, quindi, il potere di veto in capo anche a uno solo). Ciascuno di questi appuntamenti ha una valenza nel presente e proietta i suoi risultati nel futuro, sicché il governo ha un potere presente ma ne estende i risultati nel futuro.
Soltanto degli irresponsabili possono puntare su un filotto di fallimenti, pagando il prezzo del disastro pur di incassare il premio della faziosità. Ma questo non significa rinunciare a far politica od opposizione, semmai dovrebbe indurre a farla seriamente, condizionando il governo e non tacendone le contraddizioni.
Sul primo punto, il Pnrr, il governo avrebbe potuto scegliere di rinunciare subito ai due terzi dei fondi, che sono prestiti (a tasso agevolato), prendendone solo un terzo (a fondo perduto). Non solo non lo ha fatto – giustamente – ma ha ribadito di volere spendere fino all’ultimo centesimo. Il che comporta il riconoscimento di quanto vantaggiosa sia l’integrazione europea e di quanto quei prestiti, indirizzati a investimenti, siano più convenienti di quel che lo Stato sovrano raccoglie sul mercato.
Sul secondo, il Patto, il governo avrebbe potuto approfittarne per dire che non accetta vincoli e che ciascuno si fa i fatti propri in casa propria. Non lo ha fatto – giustamente – perché riconosce che senza la protezione delle regole europee il primo Paese a trovarsi nella palta sarebbe l’Italia.
Sul terzo, il modo in cui si vota, avrebbe fatto il contrario di criticare la difficoltà di giungere a decisioni e non avrebbe indotto l’Ungheria a non mettere il veto sull’ingresso dell’Ucraina, rivendicando il sovrano diritto di ciascuna Nazione a occuparsi soltanto di sé. Non lo fa – giustamente – perché sarebbe un suicidio. Folcloristico, ma suicidio. Eppure quei tre errori, fortunatamente non commessi, sarebbero stati coerenti con le sconclusionatezze da diversi di loro sostenute nel recentissimo passato.
E veniamo al Quirinale. Il Presidente Mattarella ha fatto osservare che un’Europa divisa è esattamente quel che vuole Putin, servendo gli interessi russi. Dando al governo la migliore copertura ideale del perché serve più e non meno Ue. È un peccato che la caciara dei polemisti a tre palle un soldo riesca a oscurare il vero terreno su cui il confronto e lo scontro politico dovrebbero articolarsi. Alla vigilia di un Eurosalto.
Davide Giacalone, La Ragione 20 dicembre 2023