Politica

Famolo condiviso

Siamo in un pazzotico gioco dell’oca, con la discussione sulle riforme istituzionali che segue sempre lo stesso percorso e torna sempre al punto di partenza. Si comincia reclamandone l’urgenza ed annunciandole; un drappello di campioni, presi dalle diverse parti, discettano sui contenuti, trovandosi sostanzialmente d’accordo e a dir le stesse cose, da anni; segue una discussione sul “metodo”, che evoca un clima di concordia; a quel punto qualcuno dice che se si devono fare si facciano, l’altro risponde che se le fanno subito vuol dire che le si fa contro qualcuno, pertanto minaccia la guerra civile; e qui s’alza chi calza il cappello del saggio, annunciando la necessità che le riforme siano “condivise”. E siamo al punto di partenza.

Qualche volta, in sogno, mi pare anche di sentire Claudia Gerini, che si rivolge a Carlo Verdone: amo’, famolo condiviso. Il fatto è che non si tratta di trovare un modo “strano”, che renda più eccitante la faccenda, perché il percorso è già tracciato, dall’articolo 138 della Costituzione. Non si scappa. In quel modo, del resto, la Costituzione è già stata cambiata molte volte, e qualcuna con un solo voto di maggioranza. Certo, trattandosi delle regole del gioco, è sempre prudente non solo affrontare in modo aperto la discussione parlamentare, ma anche non interpretarla secondo schieramenti precostituiti. La non necessaria coincidenza fra la maggioranza politica e quella delle riforme, sperando che la seconda sia più vasta della prima, è un giusto auspicio. Nelle parole del Quirinale leggo più questo, che non quanto è un po’ brutalmente sintetizzato da titolatori e commentatori. Dopo di che, però, o si procede o si sta fermi, e le riforme eversive non sono quelle fatte a colpi di maggiornanza, ma quelle fatte a colpi di minoranza.

Invito, comunque, quanti si dicono così preoccupati degli equilibri istituzionali, a ragionare su quel che succede e a trarne qualche lezione. Ai lettori abbiamo già raccontato come sono andate le cose relative al vaccino contro l’influenza A. Se ne rammentino. In materia d’edilizia carceraria, ho visto, sono stati sparati dei titoli, ma ci si è fatti sfuggire la sostanza: è stato dichiarato lo stato d’emergenza. In realtà, la situazione non è poi così tragica, o, meglio, non è improvvisamente precipitata, e, occupandomene da molti anni, ho accumulato scritti assai vecchi sullo stato incivile delle carceri italiane. L’emergenza dichiarata, pertanto, è solo un “trucco” amministrativo, capace, si auspica, di portare alla costruzione di nuovi edifici. Niente gare, niente trasparenza, niente ricorsi al Tar, solo soldi, decisioni e realizzazione. Nella riservatezza, per giunta.

Con un certo gusto macabro, è stato chiamato “modello L’Aquila”. Teorizzando, in questo modo, che solo in caso di disgrazia l’Italia riesce a funzionare. Procurandoci qualche disastro, o, più opportunamente, simulandone l’esistenza, potremmo provare a modernizzare l’Italia. Non sfugga, però, il reale significato di questo che non è un paradosso, ma l’evidente realtà: solo violando le proprie leggi lo Stato riesce a funzionare. E se lo fa lo Stato, figuratevi i cittadini, che osservano le regole cercandone non il punto forte, per il bene collettivo, ma quello debole, per il tornaconto privato. Con una postilla: prima si applaude chi “risolve”, nonostante gli ostacoli, poi, però, lo stesso può ben essere inquisito e condannato esattamente per lo stesso motivo per cui lo si applaudì. La legge inapplicabile rende accettabile l’aggiramento, ma questo consegna un potere discrezionale enorme nelle mani di chi amministra la giustizia. Ora, che razza di dignità ha uno Stato che per rimuovere la spazzatura, procurarsi un vaccino o costruire una cella deve prima sospendere la validità delle leggi? Non è una domanda retorica, perché questo è il nostro Stato.

Perciò: famolo condiviso, famolo costituente, famolo dialogante, famolo sereno, ma famolo. Perché quel che abbiamo difronte è il disfacimento istituzionale dello Stato. E se non lo si fa, se lo si prende come un gioco di società, con cui trastullarsi nei momenti di noia, non si abbia la pretesa, poi, di raccontare ai cittadini elettori che le cose rilevanti, nella nostra vita privata e collettiva, non si sono fatte perché il governo è debole, il Parlamento annaspa e la gente mormora. E non si venga a piangere sulla spalla di chi denuncia la malagiustizia, quando gli appalti dati in emergenza non avranno (speriamo di no) prodotto risultati congrui, per tempo e costi, al punto da far nascere l’ennesima inchiesta penale sulla politica, perché noi sappiamo bene quali sono le colpe della giustizia, ma questo non c’impedisce di vedere quelle della politica.

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