Politica

Fao, fame e libertà

Se le belle parole fossero commestibili i vertici della Fao (Food and Agricolture Organization, che fa capo all’Onu) sarebbero utili a sfamare i denutriti. Invece, capita che a Roma siano esaurite le suite negli alberghi di lusso, e cortei di macchine scortano signori con un girovita incontenibile, intenti ad occuparsi di una cosa che non conoscono: la fame. Se leggete i vari comunicati ufficiali, i messaggi di buon lavoro e gli interventi in assemblea, invece, la fame vi passa, perché ottusa da una valanga di parole uguali e rimbombanti di vuoto. Tutti per lo sviluppo, ma sostenibile, tutti per l’intervento rapido, ma pensato, tutti a definire “drammatica” la realtà e nessuno che possa sentirsi “indifferente”. Commovente, ma anche tendenzialmente inutile.
Ci sono tre aspetti che, ogni volta che si riuniscono questi tripudi del buonismo alimentare, tendono ad essere occultati. Uno politico, il secondo commerciale ed il terzo economico. Quello politico è semplice: ci sono molti popoli aiutare i quali significa aiutare i loro governanti, che non mancano di ferocia sanguinaria e bramosia furfantesca. La politica non si ferma davanti ad un bimbo che muore di fame, né quella povera vittima è rappresentata da organizzazioni burocratizzate, colme di politici trombati nel bel vecchio, grasso e satollo mondo.
L’ipocrisia di questi incontri è tale da non consentire di additare i singoli dittatori, contro i quali, del resto, non si muove alcuna protesta di piazza, riservata, invece, ai leaders del mondo democratico. Sicché ci becchiamo pure il mitico “er monnezza”, che nei panni del capo libico riunisce le nostre ragazze per spiegare loro quanto maschio possa essere il mondo degli attendati. O ascoltiamo le parole della moglie di Ahmadinejad, che non avendo trovato Biancaneve, per darle la mela, si rivolge alle altre mogli dei capi di stato e di governo (che razza di consesso è?), parlando dei bambini palestinesi e tacendo di quelli ebrei, che il marito vorrebbe cancellare.
Mentre noi ci pieghiamo al rito, non avendo la banale sincerità d’indicarne il vuoto, i cinesi, grazie ai soldi che noi spendiamo per acquistare i loro prodotti, comperano pezzi sempre più grandi d’Africa e d’Asia. E non certo per ragioni umanitarie. Naturalmente, nessuno s’azzarda a dire che questo è colonialismo e, anzi, Obama vola dalle loro parti per assicurare che le convenzioni sul clima resteranno lettera morta, potendosi continuare ad inquinare a piacimento. Potenza del debito pubblico statunitense, per la gran parte nelle casse dei cinesi.
E veniamo alle questioni commerciali. Un’arancia o un mandarino di Palermo costano di più dei frutti che arrivano da lontano. In compenso hanno il sapore degli agrumi, mentre le insalate che comperiamo al supermercato sanno di confezione: puoi aprirle o leccare la busta, tanto il sapore è lo stesso. Ci sono due strade: la prima consiste nel far valere le regole della sana coltivazione in tutti i Paesi da cui s’importano prodotti, la seconda nel proteggere la nostra agricoltura. Nel primo caso occorrono autorità internazionali e capacità coercitiva fuori dai confini nazionali, nel secondo (che è quello praticato) si finisce con il colpire gli interessi di quegli stessi Paesi che nella stanza accanto si afferma di volere aiutare. Il che serve a capire che i vertici contro la fame sono tempo perso, perché quelli che contano sono dedicati al commercio internazionale.
Infine, c’è il politicamente scorretto anche in campo economico, perché tutti s’affannano a raccontare quel che deve essere fatto, ma nessuno osa dire quel che è già successo: la povertà, nel mondo, è diminuita, come sono significativamente diminuiti i morti di fame. Non è avvenuto, però, grazie alla bontà governativa organizzata, ma grazie alla globalizzazione dei mercati. Che è un fenomeno grandemente positivo, anche perché spinge allo sviluppo ed alla distribuzione della ricchezza, così premendo sugli argini di regimi oscurantisti e dittatoriali. La bestialità del mercato ha fatto annusare a molti il profumo del benessere e della libertà, laddove la carità governativa serve all’esatto contrario, conservando in vita sistemi politici che meritano d’essere travolti.
A questo aggiungete il tema della demografia, con un mondo che invecchia e si stabilizza (il nostro), accanto ad un altro sempre più giovane ed in crescita esplosiva, e chiedetevi se questo approccio parrocchiale al tema della povertà ha qualche cosa di sensato.
Pertanto, profondamente convinto che gli esseri umani abbiano tutti eguali diritti e tutti debbano potere aspirare alla libertà “di” (quindi politica) ed alla libertà “da” (quindi economica, dalla fame e dalla miseria), mi punge vaghezza che democrazia e ricchezza collettiva viaggino sullo stesso binario. Che va sgomberato dai suoi nemici.

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