E’ divenuto uno strazio, che sarebbe bene interrompere. Il motore del governo talora borbotta e talaltra romba. Quando s’accorgono che i consensi calano pestano l’acceleratore, ma le marce non sono ingranate. Pensare di sostituire il governo con una roba assemblata nei corridoi, priva di consenso elettorale, è un oltraggio istituzionale. Ma neanche si può andare avanti con un tira e molla privo di contenuti, sullo sfondo di dispute postribolari. Basta. Le elezioni non sono più un pericolo, ma una liberazione.
Guai a sciogliere le Camere, dicono in Confindustria, perché una campagna elettorale sarebbe nociva ad un Paese che necessita d’essere governato. Non è un argomento logico, perché se il Paese non è governato come dovrebbe (secondo loro non è governato affatto), conservare questo stato di cose non sembra un gran vantaggio. E si tenga d’occhio la vera scadenza, quella di aprile, quando l’Europa discuterà i bilanci di ciascuno Stato: o ci si arriva con un governo forte e legittimo o ci governano gli altri. La verità è che la legislatura s’è spezzata un anno dopo essere nata e da un anno andiamo avanti con il gioco del cerino. E’ ora di tirare una secchiata su quella fiammella insulsa.
Silvio Berlusconi fa offerte di rinnovata alleanza a Gianfranco Fini, il quale rifiuta ma afferma di sentirsi parte della maggioranza. E’ noioso, oltre che improduttivo. I due sono alleati dal 1994, si sono presentati uniti alle scorse elezioni e andranno divisi alle prossime. Non si capisce più se prendono in giro se stessi o gli altri. In compenso ce l’hanno messa tutta nel dimostrare l’un dell’altro che sono dei debosciati e lestofanti, chi per il cognato e chi per la marocchina. Dite loro di smetterla. Oltre tutto il Paese, nei bar e nei luoghi di lavoro, parla e ride di tali miserie, o su queste s’indigna e preoccupa, perché ha perso la fiducia che si possa parlare d’altro. Seriamente. Tenere tutto a marinare in questa broda grumosa è da irresponsabili. Quindi, meglio sbaraccare.
Adesso è il turno di Fini. Gli italiani malati di politica attendono il discorso di Perugia, gli altri aspettano che quella città ospiti la fiera del cioccolato. Vedo che i suoi compagni (compagni?) di partito propongono un fritto misto di cose giuste, fra le quali la privatizzazione della Rai. Bravi, ottima cosa. Ma dove eravate, prima, in letargo? Perché furono Fini e i suoi uomini a lavorare contro la privatizzazione, foste voi a votare la ridicola quota dell’1%, quale massimo acquisto possibile da parte di un investitore. Che stavate facendo fesserie, lo scrissi assai per tempo. Voi avete intascato il dividendo della fedeltà, e ora mirate alla pensione da parlamentari. E’ chiedervi troppo di pagare il prezzo della coerenza?
Cosa dirà Fini, quest’oggi? Niente di risolutivo. Se dicesse che rompe tutto metterebbe in moto le urne, da dove uscirebbe maciullato. Se dicesse che ha rivisto Silvio all’altare della Patria, ove ha riconsacrato la loro unione, sancirebbe la sua fine politica, reclamata da quanti lo hanno spinto e usato. Quindi niente, rilancerà la palla. Come i tennisti pallettari, che segnano un punto solo se sbaglia l’avversario (e, anche qui, è una bella gara). Poi sarà il turno di Berlusconi, e così via. Quello dell’opposizione non arriva, perché come dei matti si sono divisi fra quanti tifano Fini e quanti aspettano la fregatura per i tifosi di Fini, in modo da colpirli dall’interno. Politica, zero.
Oramai il governo va al ritmo di Giulio Tremonti e di riforme sociali parla Mario Draghi. Questo capita non perché, come sarebbe saggio, si riconosce il peso enorme delle questioni economiche, ma perché si sono squagliate le proposte politiche e incombono gli obblighi contabili europei (senza i quali saremmo in mano alla speculazione globalizzata). L’Italia ha bisogno di combustibile politico, ovvero d’idee per le riforme e di pratiche coerenti. Ma le taniche sono a secco, sicché ciascuno fa la corte a tutti gli interessi, cerando di non inimicarsene nessuno. Ed è questa, appunto, la teoria e la prassi del pantano.
Posto ciò, mi direte, le elezioni non sono una soluzione. E’ vero. Ma con due postille: a. la democrazia non può essere commissariata o sospesa, perché ne morirebbe; b. tornare al voto significa costringere alla disciplina delle alleanze. Sarà il centro ad essere rilevante, non tanto nelle urne, quanto prima: se sceglierà l’alleanza politica con il centro destra ne prenoterà il futuro, e se sceglierà la corsa solitaria (magari raggruppando diverse sigle) toglierà spazio elettorale alla sinistra, portando ad estinzione il concetto ottocentesco del rosso fronte popolare. Non sarà molto, ma è già qualche cosa. E, in ogni caso, è meglio di questa melassa nella quale ci muoviamo.