Politica

Fisco e patto sociale

La favola bella della lotta all’evasione fiscale ci accompagna da decenni. Cambiano i governi, ma la filastrocca si rinnova. E mentre il racconto procede, l’evasione aumenta. L’effetto, come capita in questi casi, è quello d’abbioccare il pupo, stramazzandolo nel sonno in cui sognerà qualche lista d’evasori, qualche yacht intestato a mendicanti, qualche utile vendetta sociale. Mi permetto d’interrompere la ninna nanna, perché temo stia sfuggendo un particolare: la realtà è diversa e, se non si sta attenti, si spezza il Paese, sia in orizzontale che in verticale.

Ad evadere gli obblighi fiscali sarebbe, mal contata, una quota di ricchezza pari a circa il 26% del prodotto interno lordo. Detto in modo diverso, un quarto della nostra economia vive nel nero, senza pagare tasse. Già solo questo dato testimonia che non abbiamo a che fare con un fenomeno passeggero e limitato, ma endemico e diffuso. Si aggiungano due considerazioni, dettate dal buon senso e dalle statistiche: a. l’evasione c’è in tutta Italia, ma dilaga al sud; b. anche i lavoratori dipendenti possono essere evasori fiscali (si prenda, ad esempio, il docente scolastico che fa ripetizioni in nero), ma è evidente che sono liberi professionisti, imprenditori e commercianti i grandi protagonisti della malapratica. Se, per immaginaria e bellicosa ipotesi, si dovesse dichiarare vera guerra all’evasione fiscale, se si dovessero muovere le truppe grigioverdi contro un quarto dell’economia reale, servirebbe l’appoggio delle forze armate, al sud, e quello della croce rossa per lo scatenarsi del conflitto fra categorie. Uno scenario apocalittico, e, per fortuna, irreale.

Anche perché si devono tenere presenti due ulteriori realtà. La prima è che l’evasione scoperta, ogni anno, genera poi pagamenti reali solo per un’infima percentuale, il che evidenzia scarsa precisione nel disvelarla e/o scarsa capacità di punirla. E non è una novità, visto che la giustizia italiana fa pena ovunque, ma raggiunge vertici di vergogna dove il crimine è più diffuso, talché l’incapacità di colpirlo genera economia irregolare e questa genera riciclaggio, in un festival del disfacimento statale. La seconda realtà è che il fisco evaso è un fisco folle con chi gli è leale, capace di tirare il collo alla gallina, mangiarla in brodo e poi reclamare da lei le uova. Insomma, parlare di lotta all’evasione fiscale sembra la cosa più giusta del mondo, mentre può anche essere la più improbabile e sbagliata. In ogni caso ipocrita.

Come se ne esce? Il governo dice: purtroppo non potremo diminuire le tasse, ma neanche le aumenteremo. E’ come trovarsi su un cornicione, al trentesimo piano, e dire: non muovo un passo. Utile per non sdrucciolare, inutile per tirarsi fuori d’impaccio. Siccome il debito pubblico preme, come un tumore che comprime i polmoni, fin qui si è cercato di aumentare il gettito facendo finta di abbassare le tasse. Come? Con i condoni. Che hanno funzionato e portato sollievo, ma che sono come la morfina: finisce l’effetto e aumenta la dipendenza. Invece abbiamo bisogno di diminuire veramente, e significativamente, le tasse e aumentare considerevolmente il gettito. Come? Abbattendo le aliquote e stipulando un armistizio con quel quarto della nostra economia che, fin qui, non ha pagato il fio, al tempo stesso spostando (ma gradualmente, senza brutalità) la tassazione dalla produzione del reddito, dove può essere evasa, al suo consumo, che non può essere nascosto.

Il problema è: come si fa a percorrere questa strada, capace di ridisegnare il patto sociale senza far esplodere il Paese, reggendo, al tempo stesso, il peso del debito e il pungolo dei parametri europei? Non avendo risposte, fin qui si è solo rimandato il problema. Come la storiella che racconta il serafico ottimismo menefreghista di quello che dal cornicione cadde sul serio e, interrogato da un conoscente affacciato alla finestra del decimo piano: “che fai?”, rispondeva “per ora prendo il fresco”. In realtà non è vero che non ci sono risposte, perché sono contenute nel ripetuto richiamo che il ministero dell’economia ha fatto all’indebitamento complessivo, quello che somma il pubblico e il privato, che ci vede assai ben posizionati. Il che è possibile perché gli italiani hanno una ricchezza patrimoniale pari a otto o dieci volte (a seconda di come si conta) il debito pubblico, e hanno pochissimi debiti. Quello è lo scrigno, anche se nessuno ha il coraggio di dirlo e, anzi, risponde sdegnoso che mai e poi mai. Fin qui, però, se n’è visti parecchi, di “mai” passeggeri.

Aggiungo subito, a scanso d’equivoci, che sono pronto a definire “rapina” una tassazione di quei beni destinata a finanziare una mano pubblica bucata e lorda, che brucia spesa corrente ed è incapace della necessaria spesa pubblica per lo sviluppo. Lo ripeto, serve una riscrittura del patto sociale, che passi per un ripensamento del welfare state, della struttura fiscale e per riforme profonde e strutturali (giustizia, sanità, scuola, pubblica amministrazione) che rendano credibile la politica. Possiamo arrivarci con le nostre gambe, consapevoli di quel che si fa, o trascinati ciondoloni e inebetiti della crisi, pronti solo a subire. In questo secondo caso sarebbero messi a rischio beni non disponibili, a cominciare dall’unità nazionale. Che l’anno prossimo si celebra, speriamo non alla memoria.

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