Le festività, le luminarie, i negozi aperti. È la società che scandisce i suoi tempi e tiene assieme tanti elementi, sanamente contraddittori. Il Parlamento, i discorsi, le votazioni. È la politica che ha anch’essa i suoi tempi, spesso incoerenti. Non sono due mondi diversi, l’uno è nell’altro. Il problema è quando le parole che li percorrono sono recitate e fuori tema.
Alla Camera dei deputati alcuni parlamentari di Fratelli d’Italia presentano una loro proposta: rendere obbligatoria la chiusura dei negozi almeno per le feste comandate. Un’idea, dicono, che va incontro ai lavoratori. Forse neanche se lo ricordano che fu una proposta dei Cinque Stelle, con gran discorsi retorici di Di Maio sul bisogno di salvare i lavoratori e le famiglie, finalmente libere di ritrovarsi nel focolare domestico. Oggi sono gli uni al governo e gli altri all’opposizione, allora era il contrario. Si sono scambiati la fesseria. Una fesseria per i lavoratori, giacché quel che conta è il rispetto del contratto di lavoro e la tutela dalla sua violazione. Per il resto, lavorare non è un vizio ma un dovere e un diritto. Se l’attività va bene, il lavoro e i lavoratori aumentano. Si fermano tutti e tutto soltanto con la morte sociale. È una fesseria pure per le famiglie, giacché trovare vita per le strade è benessere, ma anche sicurezza. Il tutto tralasciando che appena poche ore addietro applaudivano con entusiasmo un Milei che ha liberalizzato il servizio taxi come lo farebbe con qualsiasi cosa e, finita la festa dell’applauso, sono lì a volere imporre il calendario delle chiusure. Sarebbe da matti, se soltanto se ne rendessero conto. Il triste sospetto è che non ne siano capaci.
Di un dibattito parlamentare, convocato in vista del Consiglio europeo, arrivano su giornali, radio e televisioni quattro battute sui riti stregoneschi. Peraltro evocati da chi poi si mostra pregno di sacralità cristiana. Ma non ha senso sostenere, come si è fatto dal Pd, che nessuno si sarebbe accorto della presidenza italiana del G7. Ed è privo di senso, come ha fatto la presidente del Consiglio, considerare i fondi di competenza di un commissario europeo come un successo nazionale, se non suo personale. Ha del paradossale invitare, come ha fatto la segretaria del Pd, chi guida il governo a scendere dal ring, facendolo dall’angolo del pugilistico quadrato. Sono (non) concetti che si spiegano solo in un modo: chi usa quelle parole non si sta rivolgendo a chi siede nell’emiciclo, ma a chi ne è fuori. Ed è responsabilità del mondo della comunicazione prestarsi acriticamente a questo giuoco.
Se la destra che fu antieuropeista oggi vota a favore della Commissione europea e condivide la necessità di puntare a una difesa integrata europea, si tratta di un ribaltamento di posizioni che gli europeisti avrebbero il buon diritto di annettersi come un successo: avevamo ragione. Invece capita che chi ieri recitava la parte dell’europeista, per contrapporsi alla follia dei no-euro, oggi pensi che stare all’opposizione comporti anche il parlar male di come vanno le cose, sicché l’Unione europea diventa: impotente, disunita, in ritardo e via malmosteggiando. Che non è soltanto falso, ma anche un favore reso a chi governa e può mostrarsi contrario agli altri pur facendo il contrario di quel che sostenne.
Meloni e Schlein continuano a dire l’una che per la sanità non si è mai speso tanto e l’altra che non si è mai tagliato tanto, probabilmente rivolgendosi agli – abbondanti – analfabeti funzionali cui sfugge la differenza fra valore assoluto e percentuale, fra somme e potere d’acquisto. Lo sanno, ma non se lo dicono. Troppo complicato? Il vero tema è: chi e come spende, per la sanità? Ma affrontarlo comporterebbe fare i conti con le rispettive coalizioni e i diversi interessi che le popolano.
Così però non è un dialogo fra sordi ma un non dialogo, un fuori tema che spera soltanto di non essere riconosciuto come tale.
Davide Giacalone, La Ragione 19 dicembre 2024