Ora sono anche campioni del mondo di calcio. Dobbiamo trarne qualche funesto presagio? Non credo. Di funesto c’era il nostro calcio, e vedrete che il paragone si spinge oltre. Quella vittoria non rende più forte il grido: Deutschland über alles (la Germania prima di tutto, sopra ogni cosa)? Sì. Ma guardate a quel che accade oggi, alla nomina di Jean-Claude Juncker, candidato (anche) di Angela Merkel, a presidente della Commissione europea: non è la sola forza tedesca a squilibrare l’Unione europea, concorre la fessaggine e l’inconcludenza degli altri. I calciatori tedeschi hanno vinto, in una competizione leale e regolare, benché non avvincente. Non sono dei fenomeni. Gli altri, però, abbastanza pippe.
Lascio il calcio agli esperti. La Germania e l’Italia hanno alcuni tratti comuni. Abbiamo vinto gli stessi campionati del mondo, e nelle sfide dirette li battiamo. Siamo coetanei, come Stato unitario: noi nati nel 1861, loro dieci anni dopo. Entrambe alleati dell’Impero Austro-Ungarico, che finì perdendo la prima guerra mondiale (tema interessante: finì quello, l’impero russo, quello turco, mentre altrove era crollato quello cinese, guardate il mondo di oggi e li vedrete diversamente riemergere, sebbene in un mondo cambiato). Loro rimasero nella triplice alleanza, che smarrì il terzo, perché noi passammo dalla neutralità alla triplice intesa. Loro persero la grande guerra, noi no. Ci ritrovammo alleati nella più infamante tragedia europea, perdendo assieme la seconda guerra mondiale. Entrambe ci rimettemmo sovranità. Entrambe divenimmo terra di confine nella guerra fredda, quindi sistemi penetrati da ambo le parti. Loro furono divisi in due, noi ci beccammo il più grande, potente e illecitamente finanziato partito comunista d’occidente. Noi e loro siamo, ancora oggi, le più grandi potenze manifatturiere d’Europa.
La loro potenza economica è maggiore della nostra. Ma è anche da considerare che loro hanno 84 milioni di abitanti, mentre la Francia 66 e noi 60. I numeri contano. Come conta che la nostra età media è più alta della loro, che, a parte la gioia della longevità, non è un buon segno. Da dove parte lo scatto che divide la loro crescita dalla nostra decrescita? A scriverci un libro elencherei diversi punti, a scriverci un articolo sintetizzo brutalmente: l’euro fu creato anche come contrappeso della loro riunificazione, è stato concepito in modo da imbrigliarli ed evitare che ricrescesse troppo l’impero centrale, ma mentre loro hanno incassato (giustamente e fu un bene) la riunificazione, capendo che l’euro comportava trasformazioni profonde della vita interna e del sistema produttivo, noi abbiamo pensato d’essere furbi, non ci siamo adeguanti, abbiamo perso tempo e abbiamo usato i bassi tassi d’interesse per far finta che potesse crescere il debito pubblico. Eccola lì, la causa della divaricazione. Il fatto che, ancora oggi, ci siano in giro degli sprovveduti che parlano di “flessibilità”, supponendo che sia una vittoria ottenere regole che facciano crescere il tumore e maledicendo il rigore che ne comporterebbe la riduzione, la dice lunga su quanto il problema siano le pippe, non i giocatori altrui.
Arriviamo a Juncker. Vecchio e navigato politico, mediatore per vocazione, equilibrista per costrizione nazionale (è lussemburghese, quindi non il governante di una grande potenza). Quando arrivò la crisi dei debiti sovrani propose di federalizzarli, mediante l’emissione di euro-bond. Ricetta corretta, ma immediatamente perdente. La mollò. Il punto determinante, oggi, è questo: al contrario di Manuel Barroso, il cui peso è stato inesistente, Juncker può lavorare alla crescita del potere della Commissione, la direzione in cui si muove anche Mario Draghi, portando la Bce a chiedere non maggiore cessione di sovranità monetaria (oramai completamente andata), ma politica. Ciò che Juncker può rappresentare e quanto di più ostile si può realisticamente praticare, per l’egemonismo tedesco. Ma anziché lavorare per accentuarne questa caratteristica si è lavorato per gettarlo nelle braccia della Merkel, per far dipendere da lei la sua elezione, mentre noi italiani ci ostiniamo a riproporgli l’insensata richiesta di elasticità.
I tedeschi hanno maggiore disciplina collettiva, noi maggiore inventiva individuale. Loro credono di dovere essere governati, noi escludiamo di poterlo essere. Può darsi (speriamo di no) che troppe conferme inducano loro a ricadere nell’allucinazione che periodicamente li distrugge. In casa nostra, però, vedo riproporsi l’allucinante incapacità di ragionare come sistema, in un mondo complesso. Situazione che merita la sintesi di Ettore Petrolini, il quale, disturbato da uno loggionista, durante una rappresentazione teatrale, la interruppe e gli si rivolse direttamente: io nun ce l’ho co’ te, perché così ce sei nato, ce l’ho co’ quelli che te stanno accanto e nun te buttano de sotto. Vale a dire: inutile far finta che i tedeschi vincano per loro colpe, siamo noi che perdiamo per colpa nostra.
Pubblicato da Libero