Nella tenda di Geronimo mi son sempre sentito a mio agio. Della sua gente non condividevo tutti gli usi e costumi, e neanche tutte le idee, ma da quando le giubbe blu hanno giurato di scotennarlo, passando sopra le regole dell’onore non meno che sopra quelle del codice, Geronimo è stato un fratello.
So che nella sua tenda vive con Paolo Cirino Pomicino, quasi come fossero la stessa persona, ed è di questo pellerossa acquisito che voglio parlargli.
Geronimo è una mente fine, capace di padroneggiare la più potente delle armi: l’ironia. E’ uomo d’alta classe, quindi rifugge dalla più sporca delle armi: il sarcasmo. Geronimo ha scavato a lungo fra le cause che hanno condotto al genocidio di un mondo politico, ed ha messo in luce cose, fatti, persone e circostanze di grande valore. Paolo Cirino Pomicino, suo seguace, lo abbiamo incontrato al convegno che L’Opinione ha dedicato agli anni del giustizialismo, e qui gli abbiamo sentito dire che al fondo di quell’attacco vi è una strategia azionista, così intendendo quel partito occulto, presente nella politica non meno che nell’economia, erede del fu Partito d’Azione. Che Manitù mi protegga, mi pare una sciocchezza.
Pomicino muove il ragionamento da una corretta constatazione: la soppressione della politica coincide con il fiorire delle privatizzazioni che, definite per quel che sono, fecero finire in mani private beni fino ad allora pubblici. Il trasloco non è di per sé una cosa negativa, ed anzi, all’opposto, se ne sentiva davvero il bisogno per rendere più libera e competitiva la nostra economia nazionale. Meno entusiasmo desta il modo in cui questo passaggio è avvenuto: lo Stato ha incassato troppo poco (e troppo poco i privati hanno pagato); non vi è stata alcuna seria politica industriale che abbia accompagnato il processo; e laddove ci voleva maggiore apertura si sono consegnati dei gioielli in mano a privati che preferivano la chiusura. Un esempio su tutti: Telecom Italia, una società resa ricca e potente dalla gestione pubblica, poi privata di ogni ambizione e strategia, poi ancora derubata ed infine abbandonata a compravendite fuori dal sistema borsistico. Peggio non si poteva fare.
Cosa ha provocato questa così nefanda condotta? Intanto l’affermazione dell’antipolitica sulla politica, quindi il venir meno d’ogni sano ragionamento sull’interesse collettivo (il quale non è univoco ed indiscutibile, ma, al contrario, lo s’individua per via politica). L’assalto giudiziario, quindi, ha favorito la nefandezza. Nulla di strano, a questo punto, che i beneficiari della nefandezza abbiano favorito l’assalto giudiziario. Le prove? Si vada in emeroteca e si sarà seppelliti da quintali di prove, ogni giorno stampate dagli editori nelle cui casse sono affluiti i beni pubblici sottopagati.
Quali uomini si piegarono al depauperamento dei beni pubblici? Quali lo favorirono? Rispondo: gli uomini che hanno governato quegli anni italiani senza avere l’orgoglio di difendere il loro passato politico e, in definitiva, il loro onore. Quasi tutti, caro Pomicino. Ma che c’entra l’azionismo, visto che furono ex socialisti non meno che ex democristiani? Che c’entra l’azionismo con Giuliano Amato e Romano Prodi? Non c’entra un fico secco, così come non c’entra con il giustizialismo. Non c’è un solo buon motivo per leggere quella storia con gli occhiali colorati del marxismo torinese. Geronimo non suonerebbe mai la tromba del settimo cavalleggeri. Ma ci fu anche Carlo Azelio Ciampi. Si, certo, ci fu anche l’attuale Presidente della Repubblica, ma nel suo ruolo mi parrebbe più interessante analizzare la chiamata di un non politico (così come fu per Lamberto Dini), che non il suo lontano passato azionista. Se fosse stato scelto per quest’ultimo mi sarei sentito più sereno, mentre, invece, fu l’impoliticità a far premio. Il che, in democrazia, non è una bella cosa.
La storia azionista è storia complessa, nella quale si trovano anime diverse e spesso contrastanti (c’è anche la mia, che volentieri fumo con Geronimo), capaci di alimentare le famiglie democratiche, quelle socialiste, quelle moderate e conservatrici, ma anche quelle massimaliste. Alla fin fine l’azionismo contò poco, ed acquistò per sé un posto più nella leggenda che nella storia.
Pomicino dice: non mi fate fesso, ci sono le prove. Ed a prova cita una pessima campagna elettorale repubblicana, inneggiante alle mani pulite ed al “partito degli onesti”. Ma perché confondere le cretinate (gravemente autolesioniste) con le strategie occulte? Perché confondere una paterna debolezza di Enrico Cuccia (il cui ruolo non può certo essere riassunto in una mania complottarda) con l’ordito di una trama premeditata?
Guardando a uomini come Di Pietro o Davigo potrei dire che il manipulitismo fu una trama clericofascista, e non mi mancherebbero nemmeno le pezze d’appoggio fornite dall’operare di qualche intonacato. Ma sarebbe una sciocchezza, una semplificazione sloganistica che, per giunta, non mi consentirebbe più di capire ed apprezzare Paolo Cirino Pomicino. E ad una tale disgrazia non mi acconcio. Pertanto mi appello a Geronimo, affinché induca alla riflessione quel nostro amico e ce lo conservi attendato, senza falsi totem.