Politica

Giannino & Renzi

In un mondo sensato la sinistra guidata da Matteo Renzi cercherebbe di vincere prendendo voti alla destra e una destra guidata da Oscar Giannino cercherebbe di vincere prendendo voti alla sinistra. Nessuno dei due è omologabile a “destra” e “sinistra”, ma, insomma, cerchiamo di capirci. E piantiamola anche con i personalismi egolatrici e l’attesa dei salvatori: se non fossero loro due potrebbero essere altri, ma quel che conta è che possano confrontarsi due programmi, senza partire dall’idea che se vince l’avversario l’Italia finisce in preda alle squadracce, nell’orbita della mafia o in fondo a un pozzo. Invece gente così conquista una ribalta mediatica, ma è considerata corpo estraneo da quanti pretendono di vincere le elezioni e governare. Segno che s’è perso il lume della ragione.

Renzi è costretto a dire, e a far dire, che non conta sui voti della destra. E perché? Non so se ci hanno fatto caso, ma i moderati sono maggioranza dal 1948 ad oggi. La sinistra ha vinto le elezioni nazionali solo due volte, ma guidata da un democristiano. In un mondo sensato se ti annunciano che i tuoi competitori potrebbe perdere consensi, guadagnandoli tu, si festeggia. Qui ci si vergogna, perché è ancora radicata una visione moralistica e antropologica dello scontro politico. Che non è il trionfo dell’etica sugli interessi, ma del selvatico sul razionale. Altra accusa a Renzi: se si aprono le primarie gli elettori di destra vanno a votarlo. In che senso? Se vanno a votarlo per poi eleggerlo è segno che la destra è finita (e credo che lo sia). Se, invece, vanno a scegliere per gli altri il candidato perdente, allora sono scemi, perché dovrebbero votare Niki Vendola, estremizzando l’avversario, oppure stare a casa, lasciando che Pier Luigi Bersani si cucini nell’insanabile contraddizione fra contenuti e alleanze.

A destra la testa gira non meno che a sinistra. Un programma più recessivo di quello Monti non è concepibile, però fanno fatica a differenziarsi (ora il professore sostiene che già da subito di potrebbe abbassare la pressione fiscale, ma giusto ieri davamo conto del Def, presentato dal governo, nel quale si sostiene in contrario, con pressione che aumenta anche nel 2013, la domanda è: lo hanno letto, oltre a firmarlo?). Qual è l’alternativa? Dismissioni, abbattimento del debito, abbattimento della spesa pubblica, diminuzione della pressione fiscale, meritocrazia, legge e ordine. La base sociale di una destra sana sono i produttori di ricchezza, non i foraggiati dalla spesa pubblica. Siccome in diciotto anni di seconda Repubblica il centro destra ha vinto tre volte le elezioni e la propria classe di governo è sempre stata la stessa (almeno quella che conta), nonché decisamente al di sotto delle speranze, o  anche solo delle ragionevoli aspettative, risulta ovvio che per proporre un programma di quel tipo, volendo anche andare a prendere i voti della sinistra riformista e occidentale, devi cambiare classe dirigente. Si fa così ovunque ci sia la democrazia.

Invece no, gente come Giannino deve perdere metà del tempo e dello spazio mediatico per ribadire che non intende stare con soggetti i quali, del resto, neanche sanno stare fra di loro. Il tutto con un sistema dell’informazione che ha della politica la stessa lucida visione che la mitologia greca aveva della natura: il mero frutto delle bizze degli dei. Ma, almeno, quelli erano dei. Dalle nostre parti abbondano i nei.

Se, alla fine della fiera, riproponessimo il fenomenale scontro fra Berlusconi (in memoria delle promesse che furono) e Bersani (in memoria dei rossi che furono), all’indomani di primarie bidone, con le quali si elegge il candidato a una carica che non esiste (oramai il gramsciano trionfo del berlusconismo è decretato: credono tutti che gli italiani votino per eleggere il capo del governo), se riusciamo in ciò, va a finire che le urne restano vuote, o si riempiono di voti beffardi e spregiativi. La verità è che le primarie sostituiscono, anche nei trucchi e negli imbrogli, quelli che erano i congressi dei partiti, che, infatti, non si fanno più. E sapete perché? Perché sono morti, i partiti. Ma senza riforme istituzionali è rimasto il loro potere formale, il loro ruolo parlamentare, privo di quella vivacità democratica, di quello scontro fra interessi, che li rendeva utili. Ora sono ridotti a corpi vuoti, abitati da una fauna improbabile, a cavallo fra l’arroganza e la disperazione, fra la supponenza e l’ignoranza. Eppure l’Italia che corre e vince c’è ancora, quella che soffre pure, quella che spera anche. Ma ha perso rappresentanza. Questo è il problema.

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