Il gioco al massacro conduce ad un solo risultato sicuro, il massacro. Nel mentre il centro destra ha deciso di macellarsi sulla pubblica piazza, il centro sinistra assiste non partecipe e impotente, incapace anche solo di candidarsi a sostituire l’attuale maggioranza. Segno, evidente, che il massacro ha travolto tutta intera la seconda Repubblica. Significativo, inoltre, che quanti vedono l’esito non esaltante del gioco in corso non riescono a far altro che auspicare un nuovo, improbabile e non credibile, accordo fra i capi del centro destra, magari propiziato da assai dubbie “colombe”. Che rischiano di far la fine dei tordi.
La scena è colma di scalmanati distruttori e presunti tattici, salvo svuotarsi non appena si pone la domanda chiave: va bene, ma se si fa come dici tu, se si punta a far fuori l’ex alleato o a ribaciarlo in bocca, qual è il fine, quale l’obiettivo da conseguirsi? Urlatori e pacieri hanno in mente, nel migliore dei casi, il prolungarsi del galleggiamento. Che non serve a niente, ove mai sia possibile.
La storia della casa monegasca e il favoritismo accordato da Gianfranco Fini, ai congiunti della propria compagna, denotano una certa concezione (a dir poco deprecabile) della vita politica. Ma quando leggo che sono in corso delle indagini mi domando: e per quale reato? Proviamo a dire le cose in modo piatto: a volere immaginare il peggio qui c’è una defunta raggirata e un partito politico depredato da chi lo dirigeva. In quanto alla defunta, la signora ha goduto nel lasciare i propri beni ai camerati, e segnatamente a Fini (inteso, però, non come persona, bensì come segretario del partito). Pace all’anima sua. In quanto al partito, ci andrei piano, per tre ragioni: a. il capo era tale per tutti i gerarchi, sicché essi sono corresponsabili; b. i partiti sono associazioni non riconosciute, il loro finanziamento e il loro patrimonio (vogliamo parlare di quello che fu comunista?) non hanno il rilievo politico che assume negli Stati Uniti, quindi potrà parlarsi più d’immoralità che di reato; c. se, i camerati d’un tempo, la mettono sul piano dei vantaggi personali acquisiti grazie alla vita politica fanno prima a mettersi in fila indiana e spararsi nella nuca a vicenda.
Il problema vero consiste nelle pressioni fatte sulla Rai, e in particolare su un uomo (che ha avuto il merito di resistere) del proprio partito, collocato dalla spartizione lottizzatrice, Guido Paglia, affinché l’azienda statale contrattualizzasse i favori al congiunto del capo manipolo. Ciò ha due caratteristiche: 1. è penosamente ripugnante e inaccettabile; 2. è la regola seguita da tutti: destra e sinistra, sopra e sotto, logge e camarille. Si dovrebbe aggiungere: sempre che il fatto sia dimostrato. Ma non prendiamoci in giro: non so di quel fatto specifico, ma per il resto è generalizzato.
Se questo genere di fatti viene utilizzato per silurare un avversario politico, magari con l’aiuto del magistrato di complemento, non solo non si risana un accidente, non solo si continua nel malcostume, ma si interpreta quel gioco al massacro con il quale prima si massacra e poi si viene massacrati.
Ciò non significa che non ci sia lo scandalo, ma che è assai più grave di quel che si vorrebbe far credere. In condizioni normali, e ben prima che si svolga un accertamento penale (e qui gli estremi non mancano, visto che si tratta di un’azienda statale, di soldi pubblici e di pressioni illecite, esercitate grazie al potere della carica), una roba di questo tipo porta alle dimissioni. Ma se si dimettessero tutti quelli che, avendone la possibilità, hanno chiesto, per sé e per altri, piaceri e rendite alla Rai, andrebbe a finire che nel mondo politico si riprodurrebbe il fenomeno che accompagna la raccolta dei pomodori: posti liberi solo per extracomunitari. Lo scandalo, dunque, non riguarda la Rai: è la Rai.
Se i vari produttori, di chiunque siano figli, coniugi o cognati, avessero da vendere prodotti di una qualche validità, troverebbero conveniente farlo sul mercato, dove girano dei bei quattrini. Invece si rivolgono alla Rai, utilizzando conoscenze e parentele, perché vendono ciofeche. Per giunta a un’azienda che spende montagne di quattrini per produrre programmi in proprio. E se, come sembra essere capitato nel caso di Fini e del fratello della compagna, stando a quanto dice Paglia, chiedono il “minimo garantito”, ovvero d’essere pagati in ogni caso, è perché sono lucidamente consapevoli di star vendendo ciofeche.
Altri lo hanno fatto prima di Fini, come altri lo hanno fatto contemporaneamente. A noi piacerebbe che non si facesse più in futuro, e c’è un solo modo: privatizzare la Rai, chiudere la greppia, sigillare la mangiatoia. Il mercato, anche in questo caso, non è il male, ma il rimedio. Il guaio del nostro mondo politico è che c’è pochissima gente che crede e ha voglia d’impegnarsi per cambiare le cose, mentre c’è la fila, a destra e a sinistra, di quelli che son pronti a crocifiggere il cognato altrui per potere piazzare quello proprio. La cifra di questo mondo è la miserabilità.
Per tale motivo è un gran bene che queste storie vengano a galla, anche se seguendo la corrente del gioco al massacro, affinché chi legge e ascolta maturi l’idea di azioni concrete. La prima: basta con il canone. Avete da piazzare le vostre squinzie? Pagatevele.
E, pari pari, il discorso vale se proiettato sul grande schermo della politica: non si tratta di trovare nuovi governanti per la seconda Repubblica, perché ci servono i suoi becchini. Il Paese è forte, come i dati della produzione industriale dimostrano, ma la sua amministrazione collettiva è marcia. Non serve cambiare giocatori, è urgente cambiare gioco. Alla terza Repubblica si può giungere per putrefazione, guastando il nuovo con il vecchio, oppure per rottura e riscrittura costituzionale. La seconda è l’unica via sana. Manca ancora, oggi, chi sappia percorrerla.