Politica

Giovani vecchi

Finalmente gli studenti in piazza. Si sono svegliati, hanno capito. Hanno letto le statistiche internazionali e si sono accorti di restare in classe molto più a lungo degli altri loro coetanei, salvo uscirne decisamente più ignoranti. Hanno fatto i conti ed è stato loro chiaro che il costo di uno studente italiano è superiore alla media degli altri paesi sviluppati, ma che i quattrini se ne vanno tutti per finanziare gli stipendi d’insegnanti e bidelli, più numerosi e meno lavoranti che negli altri paesi, senza restarne a sufficienza per laboratori e materiale didattico. Hanno osservato il mercato ed è stato loro chiaro che ci sono tanti lavori per i quali mancano i lavoratori e tanti diplomati e laureati che non sanno fare una sega. Si sono stufati di sentir parlare di riforme, salvo poi vederle rinviare e rimpicciolire nel tempo, eternamente bloccate dagli egoismi corporativi e dalle prepotenze sindacali. Hanno detto basta, questi bravi e intelligenti ragazzi, occupando le piazze e reclamando una scuola altamente meritocratica, capace di offrire un futuro agli studenti bravi e un sicuro licenziamento ai docenti somari. Questo sognavo, udendo il vociare per la via. Poi si sono avvicinati e ho scoperto, con rammarico, che sono quelli di sempre: ideologizzati e beoti.

Lo sciopero non è stato discusso in incontri e assemblee. Molte classi hanno svolto la loro normale giornata, con studenti e docenti al loro posto. Per la strada sono andati quelli della Cgil e dell’Unicobas, segno che le questioni erano assai poco ideali e più direttamente legate alla concorrenza fra sindacati. E questo è niente. Gli slogan dicevano che studenti e precari si sentono uniti nella lotta. Uniti? I loro interessi sono esattamente contrapposti. Sperando di avere capito male sono corso a leggere la piattaforma della protesta, pubblicata da www.retedeglistudenti.it. Roba da non credere: gli studenti vogliono l’assorbimento totale di tutti i precari, poi dieci milioni per insegnare loro a insegnare. Sono scemi, perché, in questo modo, si terrebbero una scuola dequalificata e neanche potrebbero, per almeno venti anni, sperare d’andare a fare gli insegnanti.

Gli studenti chiedono “libero accesso al sapere”. Perché, dove l’hanno trovato, lo sbarramento? Il vero guaio è che accedere accedono tutti, salvo restare il sapere fuori dalla porta. Ma hanno visto come sono combinate le cattedre? Nell’università il vero problema non è accedere ai corsi, ma non trovarsi a dovere imparare dalla cugina dell’amante del rettore. I “collettivi universitari”, ieri, annunciavano la loro fiera battaglia “contro il governo dei tagli e contro gli attacchi di Confindustria”. Gli attacchi di Confindustria? E in che consisterebbero? Il guaio della baracca scolastica e universitaria, in Italia, è che vive su un pianeta diverso rispetto a quello del lavoro e della produzione. Con Confindustria, o direttamente con le grandi aziende innovative, occorrerebbe firmare accordi in base ai quali gli studenti possano alternare formazione teoria ed esperienza pratica. Vale per i lavori manuali come per quelli intellettuali. Il sistema produttivo dovrebbe potersi fidare di quello istruttivo per la selezione dei migliori, invece si è rassegnato a prenderne i prodotti per poi addestrarli a fare qualche cosa. Ma ci hanno fatto caso, gli studenti protestanti, che buona parte della classe dirigente industriale e finanziaria ha studiato o completato gli studi all’estero? Come fanno a non capire che è proprio quella la discriminazione, quello lo sbarramento alla cultura, non il barcamenarsi dispendioso di un diplomificio industriosamente ozioso.

Gli studenti universitari avrebbero ottime ragioni per protestare, anche in modo ruvido. Dovrebbero sostenere che la riforma in discussione è troppo poco, che si devono misurare non il numero delle cattedre, ma il successo nella vita di quelli che le hanno frequentate, che i denari pubblici devono finanziare la promozione della mobilità sociale, spingendo i bravi in alto, mentre, invece, foraggiano un sistema di baronie senza nobiltà accademica e di raccomandazioni incrociate e conniventi. Dovrebbero essere i primi a chiedere di sapere cosa diavolo hanno pubblicato quelli che insegnano, e quanti hanno letto le loro opere senza essere costretti a farlo per passare l’esame. Così come dovrebbero protestare perché la riforma, già poverella, neanche riesce ad essere discussa subito, perché le beghe nella maggioranza di governo ne hanno fatto oggetto di contesa. Invece s’arrabbiano, i tapini, perché c’è il rischio che Confindustria ci metta becco. Sono ragazzi vecchi, financo il loro linguaggio di protesta è un cascame tardo ottocentesco, senza alcun riscontro nel mondo reale.

Naturalmente, come sempre, quelli in piazza ieri non erano “gli studenti” e neanche “i giovani”, erano giovani studenti intruppati, che non rappresentano il resto. Ma questo non è affatto consolante, perché sono tantissimi i giovani italiani capaci, svegli e studiosi, desiderosi di costruirsi un avvenire migliore. Ma gran parte della loro aspirazione ha una declinazione privata e non collettiva, pensa al singolare e non al plurale. Mentre le minoranze politicizzate, sempre esistite e sempre minoranze, agitano bandiere su cui il migliore futuro è dipinto con i colori del peggiore passato. Non sono degli illusi, che è pur sempre nobile condizione, sono degli incapaci di capire il mondo, dei poveretti che hanno paura della globalizzazione. Degli sconfitti, come la gran parte dei loro padri, mantenuti dalla spesa pubblica e gravanti sulle spalle (future) dei pargoli.

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