Politica

Golden dishonesty

La golden share, l’ennesimo provvedimento che introduce e moltiplica regole, non difenderà le aziende italiane dall’aggressione di chi voglia acquisirle, anche in modo ostile.  E’ un punto decisivo, specie in una stagione in cui l’eccessivo peso del debito pubblico rende necessario vendere e dismettere patrimonio e partecipazioni pubbliche. Ed è decisivo perché attiene al più profondo malcostume nazionale: fissare regole apparentemente rigidissime, salvo poi violarle impunemente.

Nulla di teorico, è già successo: le regole per la privatizzazione di Telecom Italia prevedevano la golden share e il divieto, in capo ad un solo soggetto, di acquistarne più del 3%, passarono pochi mesi e non solo un gruppo di sconosciuti (erano tali perché operavano con società lussemburghesi, a loro volta partecipate da società oscure circa la reale proprietà) lanciò un’offerta pubblica di acquisto e scambio, chiedendo di comprarla per intero, non solo il governo dell’epoca (presieduto da Massimo D’Alena) festeggiò e incoraggiò la cosa, addirittura annunciandola trionfalmente, non solo i compratori furono trovati nel mentre segretamente vendevano, violando la legge, non solo la Consob (presieduta da quello Spaventa che sarebbe poi divenuto parlamentare nel partito del presidente del Consiglio festeggiante) non mosse un dito e fu complice, non solo si assisté inermi alla distruzione di una grande e forte multinazionale italiana, costruita con i soldi degli italiani, ma si consentì a quegli eroi di uscire dall’avventura carichi di soldi, lasciando una montagna di debiti a Telecom, che ancora ansima. Morale: solo i polli e i disonesti possono restare incantati davanti ai proclami di golden share.

Siccome siamo tenuti ad aprire una nuova stagione di privatizzazioni, quel che ci serve non è aggiungere regole, ma garantire che chi le viola vada dove merita: in galera. Il modo c’è. Prima di descriverlo aggiungo che è piuttosto singolare il governo giustifichi la proliferazione delle regole facendo esplicito riferimento alle imprese del gruppo Finmeccanica, impegnate nel settore militare. Ed è singolare che i giornali vadano di copia e incolla, senza un minimo di spirito critico. Ebbene: le imprese militari dei Paesi aderenti alla Nato non possono essere vendute a Paesi, o a capitali, considerati ostili, ma solo agli amici. Non possiamo vendere agli iraniani, per intenderci. Inoltre l’azionista di Finmeccanica è lo Stato, e non è pensabile venda tutto, sicché ha già i poteri necessari. Si tratta di usarli con saggezza. Di golden, quindi, qui c’è solo la banalità. Ma come si fa a difendere un’impresa da concorrenti amici? C’è un solo modo: mettendoci i soldi e propiziandone gli affari. Se la difendi senza farla crescere la asfissi. Se la fai produrre in modo non profittevole t’impoverisci. E se pensi di difenderla da chi saprebbe farla funzionare meglio la ammazzi. Di golden, qui, c’è solo l’inutilità.

La via maestra consiste nel mettere in un contenitore finalizzato i beni che s’intendono alienare, fissando in modo chiaro gli obiettivi e delineandone i confini. Dopo di che si prende il contenitore e lo si affida, con apposita gara (possibilmente regolare e non organizzata dai consulenti dei concorrenti), a mani professionali indipendenti, che guadagneranno solo e soltanto ad obiettivo conseguito. Chi sgarra va davanti al giudice. Fuori da questo procedimento devono restare le amministrazioni pubbliche e anche il governo, competente solo per la fissazione degli obiettivi. Finché regolatore, incassatore, controllore e giudice faranno capo al medesimo ceppo l’unica cosa che ci si può attendere è una, dieci, cento Telecom Italia. Non dico mille perché assai prima saremo già stati definitivamente derubati di tutto.

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