Politica

Guerra e urne

Non si può, contemporaneamente, parlare di guerra ed elezioni. Prima il presidente del Consiglio ha esposto ai colleghi europei la necessità di “fare di più”, per la Libia. Poi il ministro degli esteri ha parlato esplicitamente di guerra, richiamando la necessità di un mandato Onu. Al tempo stesso, però, Matteo Renzi afferma che sulle riforme costituzionali intende procedere autonomamente, soffiando sul fuoco degli scontri parlamentari e ricordando agli eletti della maggioranza che se le cose non vanno come lui vuole è da mettersi nel conto che si vada a votare. Le due cose non possono convivere.

In Libia sono stati commessi errori gravissimi. Ha cominciato il presidente statunitense, andando in Egitto a far le fusa ai fratelli mussulmani. Hanno continuato francesi e inglesi, trascinandoci in una guerra che ha sì detronizzato Gheddafi, riregolando (a nostro danno) i rapporti petroliferi, ma ha lasciato la Libia in un caos che consente l’espandersi del califfato. Per rimediare si deve usare l’Egitto odierno come sponda, così smentendo sia l’improvvida posizione americana che mesi di sciocchezze sulle primavere arabe. Un disastro politico. Ma ci siamo, non potendo escludere, anzi esplicitamente mettendo in conto la necessità di un intervento armato. La durezza di questo fronte esterno (e il cielo ci assista a che possa essere affrontato solo con le armi volanti) comporta un atteggiamento diverso sul fronte interno. Perché alla guerra si va il più uniti possibile.

Renzi usa l’arma retorica delle riforme, senza accettare mediazioni e discussioni. Ha un suo fascino, ma contiene una menzogna: le riforme costituzionali si sono fatte, eccome, anche nel recente passato, ma quelle generate con questo approccio si sono rivelate dei danni. Così fu stravolto il titolo quinto della Costituzione. Si fece anche il referendum confermativo, che non è una scoperta dei giovani sopraggiunti. Peccato che poi se ne riconobbe la follia, capace solo di far buchi nei bilanci e scassare lo Stato. Come sostenevamo. L’opposizione usa l’arma retorica del sorgente dispotismo e della fine della democrazia, che trova conferma nei voti notturni e nella soppressione del dibattito, ma è smentita dal buon senso. Specie per quelli che inorridiscono per ciò che votarono. In queste condizioni non si va da nessuna parte. Ripetemmo alla nausea che il nazareno poteva reggere se si fosse allargato ai temi dell’economia, mentre, invece, s’è perso in quelli istituzionali. Ma tutto questo non può mica svolgersi come se non esistesse il fronte esterno.

Tocca al governo cambiare rotta: l’ipotesi dell’intervento armato comporta il ricompattamento interno. Se non lo fa, e subito, è segno che quella disegnata è una rotta di collisione. Una furbata incosciente: usare le crisi per forzare la mano. Una dottrina che rende responsabili non solo quelli che la praticano, ma anche quelli che tacciono e fanno finta di non vederla.

Pubblicato da Libero

Condividi questo articolo