Bettino Craxi commise reati gravissimi, inestinguibili, per i quali meritò condanne inappellabili. Sul piano penale, morì da pregiudicato e latitante, inseguito da sentenze e processi vergognosamente falsi e bugiardi. Ma queste son faccende cui s’attaccano, tremolanti, quelli che per ben altro lo considerarono colpevole, e che, oggi, vogliono seppellirlo nel luogo comune, in modo da non essere seppelliti dal comune disgusto. Due, per citare solo i più gravi, sono i crimini da lui commessi: l’avere accettato di schierare gli euromissili e l’avere accettato la sfida comunista al referendum sulla scala mobile.
La prima scelta, che lo accostava ai socialdemocratici tedeschi, ma lo poneva contro il pacifismo guerrafondaio, violento e dittatoriale dei comunisti e contro il terzomondismo di certo cattolicume, ovvero contro le forze che hanno sempre avversato l’Alleanza Atlantica, la Nato e l’Europa, salvo far finta di averci sempre creduto, segnò la rottura con ogni ipotesi frontista, mostrando la matrice occidentale e democratica del suo sano anticomunismo. La seconda, che gli procurò l’odio del sindacato rosso, come quello di quanti preferivano il consociativismo alla democrazia, confermò che l’Italia poteva essere governata anche senza piatire l’appoggio del Pci e di Berlinguer, umiliati nelle urne. Meritava la pena di morte, Craxi, per questi misfatti. L’ebbe.
Tanto per chiarezza: chi qui scrive non solo non fu craxiano, ma avversò quello statista (nel suo piccolo) perché riteneva troppo poco quel che gli altri avversari ritenevano troppo. A me non piaceva l’amicizia con Arafat, e neanche mi piacque Sigonella. Mi piacque assai il taglio del punto unico di contingenza, ma ci sembravano utili anche tagli alla spesa pubblica. Era, ed è, lo spirito delle democrazie: governa chi è più forte, elettoralmente, e gli altri tirano, da una parte o dall’altra. A buttare giù Craxi, e con lui un’intera democrazia, non furono, però, mezzi leciti. Fu un colpo allo Stato.
“Ma le tangenti c’erano”, corrono a biascicare gli incapaci ed i vigliacchi. I primi per non sapere leggere la storia, i secondi per evitarlo. C’erto che c’erano, ma erano consustanziali alla democrazia, per tre motivi: a. perché partiti finanziati prevalentemente dall’estero, come è sempre stato per i comunisti, sono un pericolo per l’indipendenza nazionale; b. perché partiti finanziati dal sistema delle partecipazioni statali ne difendono la capacità produttiva, laddove la liquidazione di quel patrimonio, successiva all’avere eliminato i partiti democratici, s’è tradotta nel più colossale furto ai danni della collettività (dati alla mano, sono pronto); c. perché i partiti democratici combattevano la loro partita contro quello più organizzato, più tangentizzato, più luridamente finanziato con soldi sporchi di sangue, il Pci.
Si poteva, allora, andare avanti con quell’andazzo? No. I partiti democratici ebbero una grande colpa, che li perse. Non capirono il senso del 1989, del crollo del muro di Berlino, della fine della guerra fredda. Questa sì, è una colpa anche di Craxi (anche, ripeto), ma non certo un reato. I mercati si aprivano ed i costi della politica dovevano cambiare struttura. Inoltre, si sarebbe dovuta denunciare l’assurda ipocrisia della legge che regolava il sistema: sempre violata e sempre accompagnata da amnistie. Salvo per gli anni che servirono a far fuori i democratici, gli anni in cui i disonesti presero il sopravvento sugli onesti.
Craxi è un pezzo della nostra storia nazionale. Chi pensa si debba “riabilitarlo” non merita neanche una risposta. Ma è errato anche credere che si possa archiviarlo, magari tumulandolo nella toponomastica. Dobbiamo farci i conti, mettendo sul tavolo le carte della storia nazionale, spazzando le bugie che ancora ammorbano l’aria.
A tal proposito, m’è capitato di pensare a Craxi quando ho sentito Giorgio Napolitano e Gianfranco Fini commemorare Enrico De Nicola, con giulebbose parole sull’unità e l’interesse nazionali. Ma che vogliono? Sono figli di due culture politiche che avrebbero voluto un’Italia diversa, e di gran lunga peggiore. Uno aspirava a renderci comunisti, come i sovietici, l’altro avrebbe voluto conservarci fascisti. Oggi sono la prima e la terza carica dello Stato, avendo entrambe perso la loro originaria partita politica ed avendola, almeno Fini (ed è un merito), rinnegata. L’unità e lo spirito nazionali hanno vinto, nonostante loro, e grazie anche a qualche garibaldino, che giace senza pace.
Si vuol commemorare De Nicola, il monarchico Presidente provvisorio della Repubblica? Giustissimo. Lo si faccia ricordando quel che oggi s’è completante perso: il rigore dei costumi. Rivoltò il cappotto, rifiutò macchina ed autista, si pensò al servizio dello Stato, e non pensò lo Stato fosse al suo servizio. Molti anni dopo, Craxi vide crescere, come capita a tanti potenti, nel tempo e nello spazio, una corte ruffiana e profittatrice, debosciata e formicolante nello sbriciolare e pappare la cosa pubblica. Furono anni stravaganti, da questo punto di vista, ma oggi se ne conserva il peggio, avendo liquidato il resto. Le corti sono sempre lì, incapaci di decadere, perché a tutto c’è un limite, mentre a deperire è la qualità dei presunti principi, oramai convinti che la coerenza, la saldezza d’idee, il coraggio di difenderle, siano attributi dei perdenti.