L’intervista del generale Pollari, ex capo del Sismi, rilasciata a La Stampa, pone un problema serio e non eludibile. Egli sostiene che l’avere imposto il segreto di Stato su alcune vicende, a cominciare dal prelevamento di Abu Omar, lo danneggia, talché si ritrova nella scomoda e solitaria posizione d’imputato in un paio di processi, dove dovrà rispondere di condotte messe in atto, a suo dire, per conto e nell’interesse dello Stato, che, però, ritiene non solo di non dovere intervenire, ma di mantenere segrete le proprie reali intenzioni. Dal punto di vista strettamente processuale la situazione di Pollari non è poi così critica, ed è ragionevole supporre che molto si risolverà cammin facendo. Ma questo non toglie nulla alla delicatezza del problema posto, che rimane tanto per il passato quanto per il presente.
Se i governi della Repubblica continuano a manifestare la propria stima verso l’ex capo dei servizi segreti, se, quindi, il mandante delle sue azioni, pur nel cambiare d’indirizzo e colore politico, non ha parole critiche, bensì d’elogio, verso di lui, come può, la stessa persona, essere processata per quegli stessi fatti? Certo, nessuno è al di sopra della legge, ma è evidente che per difendersi l’imputato dovrà parlare del lavoro che ha svolto. Cosa che, però, non può fare se non venendo meno al rapporto di fiducia che lo lega alle istituzioni, né si può credere che la soluzione stia nel diritto a tacere, riconosciuto agli imputati, perché avvalersi di tale diritto può arrecare nocumento alla sua fedina penale. Ed è questo, forse, il nodo sul quale occorre riflettere: il rapporto fiduciario.
I servizi segreti sono amministrati e controllati secondo procedure rigide, ma che non possono mai raggiungere la trasparenza assoluta, se non facendo venire meno la natura stessa di tali organismi. E’, quindi, inevitabile che vi sia un rapporto fiduciario fra chi governa e chi li dirige. Se il rapporto è violato dai funzionari, questi possono e devono essere buttati fuori subito, su due piedi. Se sono i funzionari a non condividere l’indirizzo governativo, che prevale, possono anche andarsene, in ogni caso non possono certo essere obbligati a commettere reati. Ma se le due parti continuano a rispettarsi e stimarsi, collaborando ove possibile, nel caso sia un magistrato, nel legittimo adempimento del proprio dovere, ad aprire un’inchiesta su uomini dei servizi, allora non basta che lo Stato frapponga il segreto, occorre che si spinga a tutelare chi ha agito per suo conto e per ragioni condivise.
Può pure starci che un funzionario dei servizi debba sacrificarsi, in nome degli interessi collettivi. Ma questo non può avvenire nell’aula di un tribunale, perché, fra le altre cose, equivale a dire che si accerta e sentenzia una menzogna, con la complicità dello Stato.