Sia detto con tutto il rispetto per il ragioniere generale dello Stato, Andrea Monorchio, ma egli, sostenendo la necessità che gli italiani non comincino ad andare in pensione prima dei sessantacinque anni, non ha detto nulla di originale. Semmai, come vedremo, ha detto una cosa ovvia.
E sia detto con tutto il rispetto per il super ministro dell’economia, Carlo Azelio Ciampi, ma non vi è nulla di originale neanche nelle sue dichiarazioni, secondo le quali la posizione del governo sarebbe diversa, comunque non coincidente, con quella di Monorchio (che il governo stesso, comunque, mantiene alla ragioneria generale). Ciampi si è comportato da ottimo democristianone : non ancora Carlo Donatt Cattin, ma già Emilio Colombo.
Monorchio, dicevamo, si è limitato ad indicare l’ovvio : l’attuale sistema pensionistico e previdenziale ci porta al disastro. E’ un dato, politico e matematico, sul quale non è possibile tergiversare. Quel che Monorchio non ha detto, ma ha lasciato intendere, è che, se non si affronta questo dato, non ci sono manovrine, tasse aggiuntive o trucchetti di bilancio che tengono : i nostri conti rimarranno ben distanti non solo dalla compatibilità con i parametri europei, ma, il che è ancora più importante, sono comunque destinati a zavorrare un paese in cui la diminuzione dell’inflazione si accompagna all’aumento della disoccupazione, ed il controllo del deficit ad una tassazione insopportabile, tale da far fuggire capitali, intelletti e capacità produttive.
Ma la questione pensioni non è solo un problema contabile. E’, prima di tutto, un problema politico.
Alla metà degli anni sessanta, un non marxista, come era Ugo La Malfa, seguendo l’onda delle riflessioni di Sengor, avvertì che la lotta fra le classi, ammesso che vi fosse mai stata, aveva lasciato il posto alla lotta fra paesi ricchi e paesi poveri. Allora la ricchezza dell’Occidente non sembrava dover trovare altri ostacoli che nelle contraddizioni di un mondo ove i viaggi spaziali convivevano con la morte per fame. E convivono ancora.
Oggi, alla metà degli anni novanta, noi vediamo profilarsi, nelle nostre società, una guerra fra vecchi e giovani. I vecchi, che vecchi non sono, che, anzi, son fin troppo giovani, sono quelli che hanno le leggi dalla loro parte, i sindacati dalla loro parte, gran parte del mondo politico dalla loro parte. Parlano di diritti acquisiti, di anni ed anni in cui hanno pagato per poi avere quel che oggi ritengono essere un loro inalienabile diritto.
I giovani, che spesso giovani, o, almeno, giovanissimi non sono, sono quelli che non riescono a trovare un lavoro, e se lavorano devono tenere sulle loro spalle il peso di previdenza e pensioni da pagare ai loro padri, ed ai padri ed alle madri degli altri. Con questo peso sulle spalle, i pur fortunati giovani che lavorano, dovendo mantenere i padri che lavorarono, non possono mantenere i figli, non possono costruire famiglie, non possono permettersi quel che i loro padri si permisero.
Se fosse vero quel che sostengono i primi, e cioè che quel che oggi godono non è altro che il frutto di quel che pagarono, non sarebbe vera la condizione dei secondi. Ma dato che tutti vediamo come stanno le cose, non è lecito aver dubbi sulla realtà.
Il mondo dei vecchi chiede di avere, e reclama di non dare. Vogliono la pensione subito, anche quando sono “ragazzini” di cinquantacinque o sessanta anni, chiedono, quindi, di essere mantenuti per una trentina d’anni; e reclamano di non pagar più tasse, che, magari, servirebbero per garantire un’istruzione decente ai nipoti che non hanno.
Il mondo dei giovani potrebbe pure essere d’accordo, potrebbe pure dire : paghiamo meno tasse, tutti, riduciamo al minimo l’assistenza dello Stato, e paghiamoci la sanità privata, così come le scuole private. Ma l’accordo è solo apparente : di fatto i vecchi non vogliono pagare la scuola, non vogliono pagare la sanità degli altri, ma esigono la sanità per se stessi, esigono la pensione per se stessi, esigono, dunque, che gli altri paghino le tasse per finanziare il loro tenore di vita.
Il guaio è che i vecchi sono forti. Lo sono sindacalmente. Lo sono politicamente.
Qualche anno fa sorridevamo (sbagliando) a sentire Longo ed i socialdemocratici che parlavano di “partito dei pensionati”. Ci sembrava una cosa un po’ pietosa ed un po’ folcloristica. Sbagliavamo. Quel partito, a dispetto dei guai che hanno interrotto l’attività del lungimirante Longo, è al governo. Ci è arrivato combattendo, ed abbattendo, con poderose manifestazioni di piazza, gli avversari (dopo averne convertito alcuni). Ecco, i vecchi hanno tolto ai giovani anche la piazza.
Certo, noi non pensiamo che un uomo come Ciampi si lasci condizionare dalla fonte dei suoi personali redditi, semmai ci dispiace che si lasci condizionare da tutto il resto. Però, non è senza significato che il super ministro dell’economia sia un pensionato. Che il cielo lo conservi in salute : egli è la vivente (speriamo a lungo) dimostrazione di come un uomo nel pieno delle forze, con un lavoro di prestigio, al centro del potere, comunque si sostenti alle spalle della collettività.