Politica

Il comune senso del disastro

L’unica raffigurazione consentita è quella negativa. L’Italia descritta dagli italiani è un Paese già precipitato verso la catastrofe e la povertà. Oramai non c’è contenitore televisivo in cui i commenti degli ospiti non vengano sollecitati su filmati che documentano popolazione ridotta alla fame, impossibilitata ad acquistare beni alimentari di prima necessità. La relazione del presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, ha scatenato una raffica di titoli sul baratro imminente, ove già non acquisito. Eppure non era quello il contenuto delle sue parole, tanto che il titolo del quotidiano confindustriale è stato: “Un’Italia nuova con la forza dell’industria”. Secondo Mario Monti, professore d’economia prima che presidente del Consiglio, nell’abisso dell’insolvenza saremmo dovuti cadere già nel novembre del 2011. Discutiamone nel merito, ma la cattiva sensazione è che tutta questa marcia funebre propizi più il luttuoso immobilismo che non la voglia di resurrezione.

I dati effettivamente drammatici sono due. Primo: se per venti anni abbiamo continuato a perdere competitività, ora perdiamo direttamente le aziende, visto che sempre più numerose sono condotte alla chiusura, anche (non solo) dall’insostenibilità del carico fiscale. Secondo: la classe media (che secondo i dati delle dichiarazioni dei redditi, è non solo classe generale, ma classe totale) è erosa dal basso, con fette progressivamente scivolate nella povertà. L’effetto peggiore non è dato tanto da chi scivola, ma dalla paura ingenerata in chi si sente in pericolo di scivolare. Questi due elementi creano un umore certamente non celestiale, incrudelito dall’approccio moralistico, che tende a togliere peso ai dati effettivi e ad accrescere quello della sensazione di una deprivazione per colpa altrui.

Queste sono cose reali. Negarle sarebbe cieco. Ma lo è anche considerarle come unica chiave di lettura dell’Italia. Un Paese che ha visto crescere le proprie esportazioni fuori dall’area europea, complessivamente in recessione. Un Paese ancora vivo e vitale. Con cittadini fin troppo patrimonializzati, quindi non poveri, ma, al tempo stesso, con in portafoglio patrimoni immobiliari descritti non come il frutto dei risparmi passati, bensì come il bancomat da cui attingere gettito fiscale. Ricordarlo, però, sembra quasi un’offesa. Un oltraggio al comune senso del disastro. Il che potrebbe anche essere ragionevole se la drammatizzazione servisse a propiziare riforme radicali e tagli profondi della spesa pubblica, in modo da far calare la pressione fiscale e recuperare risorse per investimenti. Invece serve a reggere una collana di rinvii e rinunce. Anziché essere sprone all’azione diventa alibi alla stagnazione. Terrore fine a se stesso.

Il governo Letta sa bene di non avere davanti a sé molto tempo (anche se cascano in fretta i governi dati per longevi e agonizzano a lungo quelli nati moribondi), ma anziché trovarvi motivo per fare subito tutto il possibile ne trae spunto per snocciolare programmi minimalisti. A loro volta destinati a divenire esagerati, rispetto alle ancor minori realizzazioni. Una trappola micidiale, che finisce con il paralizzarlo anche in cose che non solo non costano, ma fanno risparmiare (Enrico Letta s’è preso pubblicamente lo sganassone di Squinzi a proposito dell’Agenzia Digitale, laddove ci vuole nulla per uscire dal coma e avviare attività d’immediato risultato).

Così mi sono fatto la convinzione che una classe dirigente fallimentare, ricomprendente la politica, l’impresa, il giornalismo e la cultura, s’adagia sulla descrizione dell’Italia distrutta per non fare i conti con la propria distruzione. Di problemi ne abbiamo, eccome. Qui ne parliamo ogni giorno, cercando di proporre anche le soluzioni. Ma il più grosso è quello di un corpo vivo che ha perso il sistema nervoso. Un esempio: Squinzi parla, giustamente, dell’urgente necessità di porre rimedio allo scempio del Titolo quinto della Costituzione, che ha disarticolato lo Stato e complicato laddove si doveva semplificare, ma la politica e il giornalismo s’attizzano per il porcellum, il porcellinum e le maialaten. La verità è che sappiamo bene cosa si dovrebbe fare, lo sappiamo a destra e a sinistra, sopra e sotto, lo sappiamo per l’economia, lo stato sociale, la giustizia, la scuola e così via, ma non lo facciamo perché ciascuno non riesce a immaginare se stesso altro che nel presente e nell’esistente. Questo sì che è un disastro.

Pubblicato da Libero

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