Gli anni novanta non hanno certo tenuto a battesimo la giustizia terrena e la magistratura incaricata di amministrarla, ma nel loro corso si è delineato un quadro ove l’intervento dei magistrati ha direttamente morso quella che prima poteva considerarsi l’autonomia della politica, mettendo così in crisi equilibri che sembravano solidi.
E’ successo in Italia, ma anche in Francia, in Germania, in Spagna, in Belgio, da troppe parti perché la cosa possa essere considerata accidentale e passeggera. Al contrario, come si vedrà, ha radici profonde e ramificazioni inattese.
Potere od ordine?
Prima di entrare nel vivo del tema, però, sembra opportuno chiarire il pensiero di chi è stato così a lungo e così a sproposito citato ed evocato: Montesquieu. Già, perché quando è stata evidente la necessità di rimarcare i confini entro i quali l’ordine giudiziario può e deve agire, essendo fuori da essi la scrittura della storia, l’orientamento della politica o la definizione delle alleanze internazionali (si pensi alla vicenda di Kohl, per molti aspetti paradigmatica), quell’ordine stesso ed i suoi consapevoli ed inconsapevoli sostenitori ha voluto ricordare il principio cardine dell’ordinamento democratico: la separazione dei poteri, che imporrebbe di garantire il magistrato da ogni tipo di dipendenza che influenzi il suo lavoro. Strano modo di vedere le cose, e non solo perché la magistratura inquirente è autoreferente ed autogovernata, ad oggi, solo in Italia, Spagna e Portogallo, essendo altrove in qualche modo dipendente dal potere esecutivo, senza che questo metta in dubbio la natura schietta di quelle altre democrazie.
No, la stranezza maggiore sta proprio nel richiamo a Montesquieu, il quale, al contrario, scriveva che i magistrati posso attentare alla vita, alle proprietà ed alla reputazione di tutti e di ciascuno; pertanto esortava a non fidarsi di loro e ad adoperarsi affinché non detengano un potere autonomo. “Che la giustizia divenga in qualche modo un potere nullo”. In che modo? Subordinandone l’attività alla stretta osservanza della norma, facendo dei giudicanti null’altro che l’umana voce delle leggi scritte. Da chi? Dal potere legislativo, naturalmente, ovvero dalla politica. E questo ci porta al tema, alla grande malata: la politica.
Processare il nemico
La politica ha maneggiato con una certa incuria il tema della giustizia, avvalorando l’idea che a questa sia possibile delegare lo scioglimento di nodi che erano stati considerati competenza esclusiva dei poteri legislativo ed esecutivo. Si prenda la politica estera e si osservi quel che è successo.
Nel corso della prima guerra mondiale qualcuno, fra gli alleati, aveva preso in considerazione l’ipotesi di trascinare il Kaiser Guglielmo II innanzi ad una corte internazionale. Aggressore e criminale di guerra. La cosa fu fatta cadere, senza lasciare tracce significative. Diversamente, com’è noto, andarono le cose al termine della seconda guerra mondiale, quando un certo numero di gerarchi nazisti fu giudicato a Norimberga. Una pagina interessante, cui ci si dovrebbe rifare con molta cautela.
Gli accusati, in quell’occasione, non destavano, né la loro memoria ancora desta, alcun rammarico. Ma è un fatto che fra i giudicanti si trovavano i rappresentanti delle nazioni che avevano vinto la guerra, e fra queste si trovava chi osservava gli stermini nazisti, tanto nella meccanica quanto nella finalità, con l’aria di chi era convinto si potesse far di meglio.
Non è sacrilego, crediamo, osservare che, in quel caso, il Tribunale era incaricato di chiudere le pendenze della guerra, non certo di prefigurare un modello di giustizia. Se la guerra, secondo Von Clausewitz, altro non è che la prosecuzione della politica con altri mezzi, in quel caso il Tribunale fu la prosecuzione e chiusura della guerra, con altri mezzi.
Il 15 aprile del 1991 fu Hans-Dietrich Genscher, ministro degli esteri della Germania Federale, nel corso di un vertice lussemburghese, a suggerire l’idea di tradurre Saddam Hussein davanti ad un Tribunale che ne giudicasse adeguatamente le gesta. Fece esplicitamente cenno ad una “procedura tipo Norimberga”, ed il lussemburghese Poos, a nome dei dodici, in tal senso si indirizzò al segretario generale dell’ONU, Pérez de Cuellar. Gli statunitensi la pensavano diversamente, a torto od a ragione, ed i togati non si sedettero mai a giudicare l’alleato dell’occidente nella guerra contro l’Iran, poi divenuto la bestia nera degli interessi occidentali in un’area non priva di problemi seri e preoccupanti. Così si dovette attendere il 22 febbraio 1993, ed una fredda giornata newyorchese, per assistere alla nascita del Tribunale Penale Internazionale, in quel caso chiamato ad intervenire contro gli autori dei massacri nell’ex Jugoslavia. Il signor Milosevic è ancora sotto processo, e né lui né la sua sorte sono in grado di turbare le libere coscienze, ma è difficile considerare quello che si svolge contro di lui un “processo regolare”, almeno secondo i canoni e le tradizioni della civiltà del diritto. Milosevic è uno sconfitto, nella cui sorte poteva pure starci una pallottola in fronte nel momento in cui una vasta coalizione decise (tardi) di porre fine al genocidio di cui si era eletto leader. E’ uno sconfitto che attende di essere giudicato da una corte che trae legittimità dalla volontà di quegli stessi che gli dichiararono guerra. Poniamo una domanda: che possibilità ha Milosevic di essere assolto? Nessuna, pertanto il problema è d’ordine del tutto diverso: che ne facciamo di questo serbo nazionalista e sanguinario? Non c’è dubbio che la risposta è d’ordine politico, non giudiziario.
Sia chiaro, il ragionamento fin qui condotto non mira certo a sostenere l’inutilità o l’illegittimità dei tribunali internazionali. L’europea Corte di Giustizia, così come la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, per fare due esempi che ci riguardano direttamente, sono due autentiche conquiste della civiltà e, nei limiti delle cose possibili, funzionano accettabilmente. Ma, appunto, presso queste Corti saranno gli Stati nazionali a sedersi assai spesso sul banco degli accusati. La logica è evidente: Stati diversi si vincolano al rispetto di regole che hanno valore sovranazionale, siano esse destinate a regolare i mercati od a salvaguardare la dignità delle persone; nello stabilire queste regole eleggono anche la Corte preposta a giudicare della loro eventuale violazione; ed a questa Corte, appunto, il cittadino danneggiato ricorre, trascinando il giudizio il proprio paese.
La pluricondannata Italia, presso la CEDU, ha sottoscritto e ratificato la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, ben conosce le regole del giusto processo, che avevano valore costituzionale già prima che, opportunamente ed esplicitamente le s’iscrivesse nella Costituzione, e, pertanto, viene condannata in virtù di principi da questa condivisi, benché non rispettati. La stessa cosa non può dirsi per il Tribunale Penale Internazionale, o, almeno, non può dirsi nei casi concreti e reali che fin qui conosciamo. La qual cosa pone molti problemi attinenti alla filosofia ed alla logica del diritto, ma, ed è quello che qui c’interessa, crea anche un colossale equivoco politico.
Giustizia o politica
E’ come se s’incaricasse una giurisdizione di amministrare giustizia sociale, come se, fuoriuscendo del tutto dallo schema disegnato da Montesquieu, si caricasse sulle spalle del magistrato non il compito di dare voce alle leggi, ma quello di dar giustizia alle genti. Un passo micidiale, innanzi tutto perché disunito da qualsiasi forma di potere legislativo od esecutivo di pari portata territoriale, il che significa, alla fine, perché disunito da qualsiasi sostegno del consenso democratico. Un passo che porta la politica a perdere capacità d’arbitraggio fra valori e fra interessi diversi. Una strada in fondo alla quale non s’intravede nulla di certo, e quel che si scorge non ha nulla di confortante.
Qualche tempo fa uno studioso brillante riuscì a far parlare il mondo di una tesi stravagante, suggestiva non meno che priva di riscontro nel passato e nel presente: sostenne essersi conclusa la storia. Ecco, l’idea che le corti possano amministrare il discrimine fra il giusto e l’ingiusto, ergendosi a fonte del diritto che amministrano, sottraendo terreno ai doveri della politica, sembra proprio il frutto della fine della storia. Fine che, però, non c’è stata e non ci sarà. E l’equivoco è destinato a crear problemi.
Guardiamo, difatti, a quel che è successo all’interno di singoli Stati. Tastiamo il terreno infido e mobile sul quale le democrazie giuocano la sfida della propria sopravvivenza.
La politica debole
La corruzione è sempre esistita e, come tutte le debolezze e gli errori umani, continuerà ad esistere. La corruzione più visibile e detestabile è quella che alberga nella vita pubblica, e che si è chiamata corruzione della politica.
I sistemi più corrotti sono le dittature, le autocrazie, o i governi di pochi. Le democrazie sono i sistemi ove la corruzione ha trovato maggiori ostilità, capaci come sono di impartire la sanzione definitiva: la perdita del potere.
Della corruzione come fatto criminale qui non ci occupiamo. Ci sono le leggi, ci sono i Tribunali. Chi sbaglia paga e l’unica speranza è che si riesca a farla pagare a tutti quanti abbiano sbagliato o sbaglino. La corruzione come fatto politico comporta qualche maggiore difficoltà d’analisi, spesso confondendosi (o accompagnandosi) ad un compito legittimo della politica: scegliere fra interessi diversi e talora contrapposti.
Epperò il capitolo che ha interessato molti paesi democratici nel corso degli anni novanta non è esattamente quello della corruzione, bensì quello del finanziamento della politica. Inutile ricordare che si tratta di un problema del tutto irrisolto.
Attorno a questo tema è cresciuta, da una parte, l’ipocrisia di quanti hanno voluto negare l’evidenza, ovvero la necessità di dare forza economica alle idee e la difficoltà di farlo in totale trasparenza; accanto a questo, d’altra parte, è cresciuta una realtà grigia, da tutti conosciuta ma da tutti taciuta, che si è rivelata un ottimo terreno di coltura per parassiti che traggono personale vantaggio dalla non visibilità del loro lavoro. Questo è il quadro di ieri, ed è ancora quello d’oggi. Ma, ancora una volta, non è il cuore del problema.
L’evento che ha mosso la valanga risale al 1989 e coincide con il crollo del muro di Berlino e l’inizio della fine del colosso sovietico. Quel giorno cominciò a venire meno quello che era stato vissuto come l’unico grande nemico delle democrazie. Quando l’URSS collassò del tutto (con vicende e passaggi che attendono ancora di essere chiariti) le forze democratiche poterono festeggiare, ma, al tempo stesso, videro venire meno la ragione per cui molti difetti erano stati accettati e tollerati dai cittadini. Quella di Kohl, come si ricordava prima, è una storia esemplare: il cancelliere federale che era riuscito nell’impossibile, ovvero nel riunire le due Germanie, nel mentre festeggiava, davanti alla porta di Brandemburgo, doveva prendere atto del distacco, se non dell’ostilità, con cui l’opposizione interna seguiva quel passaggio storico; lo stesso cancelliere, che in quel momento riscaldava i cuori di tutti i suoi concittadini, sarebbe stato presto spazzato via dagli scandali (finanziamenti provenienti dall’asse con i socialisti francesi, ovvero lo stesso che contribuì a rendere la riunificazione compatibile con il disegno europeo), lasciando la ritrovata unità nelle mani di chi fu ostile a lui, ma anche a quell’unità.
Cosa era successo? Era successo che all’interno delle democrazie, a cominciare dall’Italia, non si riteneva più né necessario né opportuno tollerare un finanziamento occulto della politica che fino a ieri era considerato un costo fastidioso ma accettabile e che, di colpo, diveniva inaccettabile perché non più destinato a fronteggiare il nemico. Si mossero interessi che mal sopportavano i limiti imposti dalla politica, si mossero lobbies che speravano di potere avere le mani libere, ma trovarono eco e consenso in un diffuso sentimento popolare. La condotta detestabile della zona grigia fece da detonatore e, con colpevole leggerezza, si lasciò che alla magistratura si guardasse come ad un potere capace di restituire giustizia alla vita di un Paese.
In altre parole, dopo il crollo del comunismo storicamente realizzatosi la politica democratica non seppe indicare le nuove mete e le nuove frontiere di una sfida che non si chiudeva, di un’evoluzione che non si estingueva. Lasciò un vuoto, e quel vuoto fu occupato. Per questo ripetiamo che, in quel cotesto, le colpe politiche sono più pesanti della pur esistente propensione del giudiziario ad invadere terreni che non gli competono, ma, per non indurre confusione, dobbiamo anche ribadire che quelle colpe non sono riconducibili alla condotta morale, bensì all’insufficienza di proposta politica.
Da quel momento ciascun paese democratico dovette accorgersi di quanto devastante sia l’amministrazione deviante ed invadente della giustizia. E le masse che a quel processo degenerativo portarono il loro istintivo consenso (che, come sempre accade, conteneva ingredienti di aspirazione alla giustizia non meno che di vendetta e rivalsa sociale) dovettero accorgersi che quella via poteva pur condannare il passato, e talora anche il presente, ma non era in grado di costruire alcun futuro. E’ pericoloso parlare di riflusso o di “vento che cambia” se non si è capaci di comprendere da dove originò il flusso, da quali umori muoveva il vento. E’ pericoloso giudicare chiusa una stagione se non si è in grado di rimuovere i danni alla memoria, se si accetta una lettura falsa e falsante del proprio passato nazionale. Perché così facendo ci si copre gli occhi e si procede verso il baratro.
Politici non eletti
E’ la fine di un sogno, o, meglio, di un incubo ideologico ad avere assegnato alla magistratura costituita ed esistente il bisogno di soddisfare la sete di giustizia. Ma non di una giustizia amministrabile dai Tribunali, bensì di una più vasta giustizia sociale, di fronte alla quale i Tribunali non sono solo privi di capacità, ma fianco di legittimità.
Questa mal riposta, e pur giusta, aspirazione ha creato magistrati che son divenuti soggetti politici: nel corso della loro attività (il che è intollerabile e deviante, ma anche consueto e normale nella nostra magistratura politicizzata e correntizzata), così come, poi, nel loro effettivo proporsi a protagonisti della politica. L’oscenità di questo percorso è pari alla totale inattitudine di certuni ed alla generale delusione che oggi è facile misurare. Il guasto, però, era presente fin dal primo passo, anche se non molti seppero vederlo per tempo.
Errori sovranazionali
Così stando le cose non è poi difficile cogliere il nesso che accomuna certe vicende nazionali a certi indirizzi internazionali, ed il filo rosso che lega le due cose è un’insufficienza, una mancanza, quindi, in definitiva, una colpa della politica. Colpa alla quale solo la politica può rimediare, proprio perché la storia non è finita e l’arbitraggio dei valori e degli interessi non è e non potrà mai essere né un fatto tecnico, né un compito delegabile a chi non abbia legittimità democratica.
Per nascondere a se stessi ed ai propri elettori il senso di certe decisioni i governi democratici hanno chiamato “operazioni di polizia” delle vere e proprie guerre (alle strette parlarono di “guerra giusta” come se sia mai esistito qualcuno che abbia voluto guerre ai suoi stessi occhi ingiuste). Agendo in questo modo tali governi seguivano la strada impolitica che era battuta da quanti speravano di sostituirli pur non potendo disporre del consenso della maggioranza degli elettori. La debolezza delle idee politiche può generare mostri, ed in qualche caso li ha effettivamente prodotti.
Particolarità italiane
In tutto questo esistono due specificità italiane, con radici antiche.
Il nostro è il paese che ha allevato il più grande partito comunista d’occidente. Un partito che raccolse energie morali e politiche di prima qualità, nel quale trovò ospitalità un senso della cosa pubblica che, naufragio dopo naufragio, approdò alle sponde di chi pensando all’assoluta fedeltà e dedizione agli interessi del partito, per le contorte strade delle idee e della storia, seppe meglio combattere fenomeni degenerativi che altrove attecchivano più facilmente. E ciò non di meno un partito che più d’ogni altro partito comunista fu finanziato, illecitamente, con i soldi sporchi di sangue forniti da una potenza nemica degli interessi italiani e, in definitiva, della democrazia.
Sarebbe stato ragionevole supporre che il crollo del muro consegnasse questa realtà ai libri di storia. Così non fu, e non accadde proprio perché il necessario cambiamento, in Italia, anche per le colpe politiche sopra ricordate, imboccò la strada delle inchieste giudiziarie, e queste aggredirono il nodo del finanziamento della politica. C’è chi parla di complotto, chi ride all’idea che sia esistito un complotto, ma l’evidenza politica è sotto gli occhi di tutti: interessi diversi hanno concorso alla distruzione delle forze politiche che avevano democraticamente retto e fatto crescere il Paese, tale eliminazione fu possibile, prima di tutto, perché oramai prive di una politica forte; dallo sfacelo si è salvata l’unica forza politica, quella comunista, che si finanziava per minor parte esattamente come gli altri e per maggior parte in modo diverso (nel senso di peggiore). A questa forza, con gli impressionanti limiti derivanti dalla sua storia e dal suo passato, fin recentissimo, è rimasta l’egemonia sulla sinistra e, per lungo tempo, l’egemonia sul governo stesso del Paese.
Come non bastasse questa specificità, l’Italia ne ha sperimentata una seconda (questa, però, destinata a far scuola nel mondo): il vuoto della politica, provocato da insufficiente elaborazione e da assassinio giudiziario (e l’una cosa, naturalmente, non giustifica l’altra), è stato riempito da chi è stato capace di elaborare un prodotto comunicativo in grado di raccogliere i sentimenti ieri aggregati dai partiti sacrificati. Come si vede, un prodotto del tutto figlio di quel processo giudiziario, di quelle pressioni distruttive.
L’Italia è ancora prigioniera di quelle macerie.
Come uscirne
Non se ne esce sostenendo il pangiustizialismo. Non se ne esce gridando alla lesa maestà democratica se la giustizia è chiamata ad occuparsi della pubblica amministrazione. In Italia la prima cosa ha preso le vesti della sinistra, la seconda della destra. A noi paiono due approcci reazionari, decida ciascuno di qual colore. Non se ne esce neanche ignorando il problema del finanziamento della politica che, altrimenti, finisce nelle mani di chi è in grado di autofinanziarla (e per questo la nostra seconda specificità si replicherà altrove).
Il Paese non troverà pace fino a quando non si sarà capaci di togliere al giudiziario ogni aspirazione di potere, restituendolo alla sua funzione corretta ed istituzionalmente compatibile. Si amministri la giustizia nello scrupoloso rispetto delle leggi, nell’assoluto rispetto del cittadino e delle sue libertà. Fuori da questa via la giustizia sarà degradata a serva non della politica, ma della fazione, fino a scomparire come tale.
Dismesso l’uso improprio di quest’arma, la politica di ciascuna parte sappia riconoscere la legittimità dell’avversario, non tenti di eliminarlo laddove non riesce a batterlo, torni sul terreno che la vede rappresentante e fonte di idee e di interessi. Ancora una volta: ciascuno dia a questo approccio il colore che desidera, a noi pare l’unica via che porta alla vittoria di chi pensa al futuro non come un tempo in cui vendicare il passato.