Politica

Il dovere di D’Alema

Dopo la sconfitta europea, Massimo D’Alema ha un preciso dovere, nei confronti della sinistra e dell’Italia: seppellire un passato che, senza una rottura profonda ed inequivocabile, non passerà mai. Tocca a lui aprire la strada ad una sinistra democratica e di governo, non marchiata dall’infamia del passato comunista. Altri, che avrebbero potuto farlo, sono morti. Né si può pensare che se ne incarichino personaggio di minore caratura, come quel Veltroni che nega d’essere mai stato comunista. No, tocca a D’Alema perché egli è stato comunista e ne è orgoglioso, avendo cessato di dirsi tale solo e soltanto perché il comunismo è morto, lasciandolo orfano.
Le ragioni per cui la sua candidatura europea è naufragata, nonostante l’appoggio del governo, o, meglio, facendo naufragare anche gli sforzi del governo, sono molteplici. Resta il fatto che tutta la sinistra di governo, in Europa, lo ha abbandonato. La politica estera è una materia complicata, nella quale, più che in quella interna, i dettami del realismo s’accompagnano alle affermazioni ideali, la tutela degli interessi nazionali all’enunciazione di principi generali. Tutto ha un suo peso specifico, compreso il fatto che, in Europa, la sinistra di governo è antitotalitaria. In un linguaggio del secolo scorso si direbbe: antifascista tanto quanto anticomunista. Nei Paesi in cui la sinistra ha governato, quand’era ancora attiva la guerra fredda, il punto di partenza fu il ripudio non solo del comunismo, ma anche del marxismo. Quindi, al contrario di quel che pensano, o fanno finta di credere, i dirigenti della sinistra, il problema non è dirsi socialisti, o socialdemocratici, occorre dirsi antitotalitari, quindi anticomunisti.
D’Alema lo sa benissimo, e da molti anni. La sua stessa condotta di vita, del resto (che conta, eccome) non mostra alcun cedimento ai dettami dell’egualitarismo. Solo che in lui il cinismo ha dominato la coscienza, la voglia di non smentire se stesso ha castrato quella di affrancarsi da un passato inguardabile. Furono le sue mani, tremanti di felicità, a maneggiare il telegramma di Leonid Breznev, che si congratulava (dopo averle finanziate) con le manifestazioni di piazza contro lo schieramento degli euromissili, voluti, invece, dalla sinistra democratica, occidentale ed antitotalitaria: in Italia Bettino Craxi e Giovanni Spadolini, in Germania Helmut Smith. Ha pensato, l’ex giovane pioniere, l’ex segretario della federazione giovanile, l’ex apparatnik, di tenere assieme la passione dei beoti, che ancora alzerebbero il pugno, con il pragmatismo interessato di chi ne ha apprezzato la macchina di potere, la spregiudicatezza nel gestire affaracci, come quello di Telecom Italia. Ebbene, la sconfitta europea suona la campanella dell’ultimo giro.
Il D’Alema di oggi può rassegnarsi a gestire un ruolo politico ritagliato sugli equilibri del potere esistente, mettendo a frutto i non pochi interessi e le non poche organizzazioni di cui è referente, può far pesare il suo seguito interno alla sinistra, portando Pierluigi Bersani alla segreteria del partito democratico, può anche aspirare a tornare al governo, od a veleggiare fra i flutti della politica politicante, grazie alle idee e ai soldi che si coagulano attorno alla sua fondazione, Italianieuropei. Alla fine, però, robetta. Triste ripiego. Mesto tramonto. Oppure può rilanciare, giocare in grande e guardare al futuro, in questo caso il primo ed irrinunciabile passo consiste in una violenta e dolorosa chiusura con il passato. Che sia credibile, però.
Dal punto di vista ideale e culturale la sinistra non perderebbe niente. Il comunismo è un rudere infetto, senza alcuna influenza nel presente e con Stati di riferimento, oggi, che sono sudice dittature per psicopatici. Ma il valore simbolico del ripudio è rilevante, anche perché la sinistra d’oggi ha gli stessi identici dirigenti del comunismo di ieri. Quelli che non ci sono è solo perché sono morti. E non c’è solo il simbolismo, c’è la sostanza politica: senza quella rottura non si riuscirà mai a chiudere la storia della prima Repubblica, costringendoci tutti a vivere l’agonia della seconda, costituzionalmente mai nata.
La forza fondante della democrazia italiana si trova nella conferenza di Yalta, conclusa l’11 febbraio del 1945. Non nella Resistenza, come afferma la retorica luogocomunista. Anche i polacchi e gli ungheresi ebbero la Resistenza, ma non ebbero né la democrazia né la libertà. Yalta segna la divisione del mondo e la storia della Repubblica italiana si dipana a partire da quella premessa e restando l’unico sistema democratico occidentale in cui la sinistra è stata dominata dai comunisti, economicamente, politicamente, idealmente e strategicamente legati al nemico. Questo ha condizionato la nostra storia, e quel passato non passerà, tornerà sempre a gola, se non lo si ficca nella tomba. Tocca a D’Alema farlo, offrendoglisi la scelta di sopravvivere in cerca di ruolo, o intestarsi un pezzo di futuro.

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