Politica

Il gioco della crisi

Silvio Berlusconi non ha nessuna intenzione di dimettersi, e fa bene. La crisi si aprirà ugualmente, ma non può essere innescata da dimissioni richieste nei comizi. Le crisi extraparlamentari non erano una bella cosa neanche quando esistevano i partiti, figuriamoci oggi che esistono solo caciccati. In quanto alla mozione di sfiducia, è l’unica iniziativa a favore di un governo già da molto tempo in autocrisi. Finché la sinistra la presenta con i giustizialisti non fa che confermare la propria masochistica impotenza. Sarebbe interessante se la presentassero i finiani, vera e unica opposizione rilevante.
Cosa succederà dopo, chi si troverà in vantaggio? Soprattutto: quali conseguenze ci saranno per i nostri interessi collettivi? Il lettore mi scuserà, ma il ragionamento che segue è noiosamente interno alle logiche di palazzo. Lo prenda come un gioco dell’oca, o una guerra con i soldatini, tanto per non abbioccarsi.
Se la rottura interna alla maggioranza avesse ragioni superabili, lo sbocco della crisi sarebbe un Berlusconi bis, con Gianfranco Fini che ottiene la testa di qualche ex camerata non fedele al ras e incassa qualche posticino in più per i futuri traditori. Ma è difficile che vada così, perché l’onda che sospinge Fini punta all’annientamento di Berlusconi. L’unico guaio, per il surfista trasformista, è che se si vota finisce su un frangiflutti lontano dalla battigia (o, se preferisce, dal bagnasciuga, ove il suo mito d’un tempo immaginava di fermare gli invasori, fortunatamente vittoriosi). Passiamo ad altra ipotesi.
Minacciando la truppa parlamentare con lo spauracchio dello scioglimento, quindi con il rischio di perdere il posto, e assicurando che è esattamente questo quel che il presidente del Consiglio vuole, il fronte del “tutti contro Berlusconi” riesce a strappargli la maggioranza al Senato, come è già avvenuto alla Camera. Per mettere su un governo possono contare sull’aiuto del Presidente della Repubblica, che ci manca solo si metta a fare i comizi. Si è già rivolto a “chi governerà”, come a dire che il verbo non si coniuga al presente, per l’inquilino di Palazzo Chigi, ma solo al passato. Qui, però, c’è un problema: chi lo fa, e come si compone il governo?
Il governo dei Padri della Patria non si può fare, perché sono morti. Quello dei bravi e degli intelligenti somiglia troppo a una dittatura, e solitamente ci siedono lestofanti e deficienti. Quindi ci vuole un governo “diversamente politico”. Scordatevi che Berlusconi accordi il consenso, perché gli bastò l’accoppiata Scalfaro-Dini. Già dato, grazie. Ad un certo punto è sembrato pensabile un governo Tremonti: garanzia per i conti, davanti all’Europa, con il consenso della Lega, con sullo sfondo la riforma del sistema elettorale, in modo da giustificare il voto favorevole di parte della sinistra. Sommate i voti dei parlamentari cui toccherebbe tornare a lavorare, appena meno numerosi di quelli che non lo hanno mai fatto, ed ecco una maggioranza. Ma non solo si regge con lo sputo, pronta a dividersi su tutto, parte anche male, visto che Napolitano ha provveduto a dire che la finanziaria di Tremonti è una schifezza indicibile (perché taglia i fondi ai medici per l’Africa?!). Difficile, rischiosa, in ogni caso dipendente dalla decisione di uno solo: Umberto Bossi. Incredibile? Capisco, ma vero.
Bossi, però, dovrebbe favorire quel governo per ottenere cosa? Il federalismo fiscale? Lui non può dirlo, ma in realtà se ne frega. Sull’altro piatto, intanto, c’è un bel dividendo elettorale. Allora torniamo alla partenza e guardiamo le tappe del gioco, seguendo il numero delle caselle. 1. I governanti (si fa per dire) finiani si dimettono, subito. 2. Berlusconi va al Quirinale e annuncia che rivolgerà un discorso al Parlamento, ma dopo la finanziaria. 3. Le mozioni di sfiducia vengono calendarizzate dopo la finanziaria, quindi sarà difficile discuterle. 4. Se il governo viene sfiduciato sulla legge di stabilità, complice il giudizio avventato di Napolitano, il presidente in carica chiede le elezioni, e per non dargliele si deve appallottolare la Costituzione. 5. Se la legge passa, Berlusconi, rafforzato, va al Senato, dove la maggioranza presenta una mozione a favore, la cui discussione precede la Camera. Parla, dice che intende andare avanti anche senza i ministri che lo hanno abbandonato, e chiede il voto di fiducia. 6. Se il Senato lo nega si apre una crisi al buio: lui vorrebbe tornare alla casella 4 (elezioni), ma altri punterebbero al governo diversamente votato. 7. Ma al Senato Berlusconi ha ancora la maggioranza, se riesce a conservarla si reca poi alla Camera, dove c’è la mozione contraria, per dire: cari deputati, qui il premio di maggioranza è nazionale, e qui sono stato tradito da chi ha tradito anche il mandato elettorale, quindi rivotatemi la fiducia, in caso contrario, come prevede l’articolo 88 della Costituzione, si dovrà sciogliere non l’intero Parlamento, ma la sola Camera dei Deputati. 8. Dopo queste parole la cosa più occupata, a Montecitorio, sarebbero i bagni, per un comprensibile stato d’agitazione con riflessi duodenali.
Nel complesso, qualsiasi persona ragionevole si rende conto che non la soluzione, ma la via d’uscita più ragionevole sono le elezioni anticipate. Prima si fanno e meno se ne soffre. I veri incoscienti sono quanti sperano in un allungamento dei tempi: la legge di stabilità è robetta (fatta anche male, che dovrà essere corretta), ma la sessione europea di bilancio, l’aprile prossimo, sarà un appuntamento decisivo. Certo, sarebbe meglio se la campagna elettorale fosse impostata sul tema decisivo delle riforme istituzionali, su come far nascere la terza Repubblica e non annaspare nei miasmi della seconda. Perché l’Italia non merita di agonizzare nell’avanspettacolo.

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