Politica

Il liuto non basta

Sentendo parlare Mario Monti i leaders cinesi (classe dirigente di alto livello, in un mondo saldamente confuciano) avranno pensato alla loro storia e all’avventura di quel vecchio generale che si trovò assediato da un esercito la cui forza era largamente prevalente: l’alternativa era fra il combattere, mettendo in conto la sconfitta totale, e l’arrendersi, che avrebbe comportato l’annientamento di una civiltà. Scelse una via astuta: fece aprire la porta della città e, da solo, vi si pose nel mezzo suonando il liuto. La sua serenità divenne una sfida, cui gli assedianti vollero sottrarsi, temendo chissà quali forze, ritirandosi. Non so come il nostro capo del governo se la cavi con gli strumenti, di certo andare a raccontare che l’euro è fuori dalla crisi, anche per merito italiano, è stata musica soave. Forse un filino azzardata.

Sarebbe interessante il giudizio di Henry Kissinger, artefice del riaprirsi dei rapporti fra gli Usa e la Repubblica Popolare, perché oggi americani e cinesi hanno in comune la ricetta per far fronte alla crisi: spingere il mercato, mettere nel conto l’inflazione, combattere senza quartiere la recessione. L’esatto opposto di quel che sta facendo la cieca Europa dell’euro. L’impressione è che Monti abbia parlato per la nostra stampa nazionale, trovandosi in un contesto in cui la posta è assai alta, giocata su un tavolo diverso, e prendendo su di sé la rappresentanza della linea tedesca. Al di là della cortesia, che in quell’oriente è dottrina di rispetto, temo non abbia convinto più di tanto.

L’euro sarebbe salvo, dunque, essendo riuscite le riforme italiane. La tesi capovolge la realtà e presuppone che gli altri siano disposti a crederci. In realtà i cinesi considerano assai forte e attrattivo il mercato italiano, e sono molto interessati al nostro valore tecnologico, innovativo e commerciale. Sanno che la nostra crisi è dovuta prevalentemente all’euro, la cui supervalutazione è anche un vantaggio per le loro esportazioni. Se si va loro a dire che l’Italia poteva essere la fiamma che avrebbe incendiato il continente, ma che, per fortuna, sono arrivati i pompieri e l’hanno estinta, si capovolge un loro convincimento, ovvero che la fiamma stesse nella natura parametrica e non politica della moneta unica, mentre noi si stava facendo la fine dei bonzi. Già così disorientati devono poi credere che abbiano avuto successo le riforme, ma essi sanno bene che le uniche realizzate si chiamano “tasse”. E sanno che sono recessive, laddove il nemico contro cui si battono è, appunto, la recessione.

Ascoltano con un certo stupore il tentativo di spiegare quel che accade circa l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, perché fanno fatica a comprendere in cosa consista il successo di potere licenziare, laddove credevano che il problema fosse assumere e incrementare la produzione. La loro crescita, ad esempio, ha subito un rallentamento (si fa per dire, perché è come un ciclista che veda passare una vettura di formula uno e ne valuti la decresciuta accelerazione), sanno di covare una pericolosa bolla immobiliare, ma reagiscono facendo crescere (dato relativo a Shanghai e da me letto in un giornale locale) del 10% i salari. Della serie: abbiamo bisogno di un mercato interno, diamo i quattrini alla gente. Rischiano l’inflazione? Certamente, ma è peggio assaggiare la recessione.

Ascoltando chi riconosce la rozzezza dei provvedimenti fiscali, finalizzati a non fare “la fine della Grecia”, non si offendono, perché a risentirsi saranno gli ellenici, ma storcono la bocca: in fondo l’Italia sta attuando una svalutazione del tenore di vita, non potendo svalutare la moneta, ed è esattamente quel che sono stati costretti a fare i greci. In misura diversa, sicuramente, ma le differenze nella posologia si confondono, viste da lontano.

Il loro presidente in uscita, Hu Jintao, ha detto che suggerirà d’investire in Italia. Grazie, ma perché queste non siano parole occorre che se ne creino le condizioni. Nessuno creda che lo faranno per ragioni “politiche”, perché non ce ne sono. Anzi, semmai quelle li spingono a combattere (assieme agli Usa, lo ripeto ed è bene che se ne tenga conto) contro la linea recessiva. I loro banchieri sono stati formati nelle università occidentali, in primis statunitensi. Il liuto non li commuove. Non investiranno nel nostro debito pubblico, perché non entreranno in concorrenza con i mille miliardi stanziati, a tale scopo, dalla Bce: visto che noi finanziamo il debito definanziando il mercato, perché mai dovrebbero imitarci? Cosa comprano, allora, le nostre grandi aziende? Quali? Le ultime rimaste sono partecipazioni statali: Eni, Enel e Finmeccanica. Comprano le piccole e medie? Per quello era sufficiente spedire il conto economico e la descrizione del patrimonio tecnologico, mica è necessario scomodare il governo. Quelle valgono da sé sole, e loro lo sanno talmente bene che favoriscono lo scambio e hanno abbassato (per alcune merci) i dazi doganali.

Diverso se s’imposta la cosa in modo concreto: gentili signori, noi abbiamo un patrimonio pubblico immenso, capace di divenire produttivo, fatto di mattoni, infrastrutture e partecipazioni azionarie, metterlo sul mercato a spizzichi e bocconi non ci conviene, specie adesso, quindi lo impacchettiamo in un grande contenitore e ne offriamo le preziose quote, con i soldi che prenderemo abbatteremo il debito pubblico, faremo scendere la spesa per interessi e, quindi, ci dedicheremo al nostro rilancio, mediante abbassamento delle tasse e aumento dei posti di lavoro, v’interessa? Allora sì che avremmo ascolto, oltre che dignità. Chiameremmo soldi per allargare i mercati, divenendo un buon affare e anche un soggetto politico disallineato rispetto all’Unione Europa dei parametri e delle tasse. Tedeschi e francesi hanno fatto il possibile per fregarci, in quel nuovo mondo, con spirito di fratellanza europea non si vede perché non ricambiarli.

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