Magari fosse vero che Silvio Berlusconi sia intenzionato e nelle condizioni di proporre un “grande patto” al Partito democratico. Claudio Tito, su Repubblica, ne parla come se si trattasse di una manovra, di un tatticismo. Ovviamente destinato a conquistare la salvezza dalla galera e la perenne ricchezza delle aziende proprie. Sono riflessi condizionati, frutto di abitudini coltivate senza largheggiare in spirito critico. Ma conta anche la natura, il codice genetico, e Repubblica, appunto, dedicò ad un patto di quel tipo un entusiastico appoggio, negli anni della solidarietà nazionale. Naturalmente avendo l’accortezza di esaltare e incoraggiare tutti i contraenti, non solo uno. Quindi, ben venga la consapevolezza che un accordo è necessario.
Non si può dire la stessa cosa di quel che va facendo Mario Monti. Il fatto che egli immagini possibile un accordo fra … non so come dire: fra lui, il suo partito, la sua lista, il suo gruppo, la sua cordata, il suo insieme? Non saprei, comunque: il fatto che egli immagini possibile un accordo fra quel che capeggia e il Pdl, ma alla condizione che non sia Berlusconi a guidarlo, non viola solo il principio di realtà e il più elementare realismo, ma anche la natura stessa della democrazia: sono gli elettori a decidere, non gli scaltrini del salottino. Monti fatica a rendersene conto, per due ragioni: a. l’idea che per governare si debba essere eletti è smentita dalla sua stessa esistenza, da cui, ovviamente, tende a non prescindere; b. sa benissimo che il bipolarismo preclusivo, fatto di coalizioni contrapposte e interiormente disomogenee, è il perfetto ecosistema per assicurare la sopravvivenza a operazioni come la sua, sicché tende non a superarlo, ma a procrastinarlo. L’interesse del Paese è l’esatto opposto.
Il primo passo affinché un patto funzioni, scrive Tito, lo si deve muovere in direzione del Colle. Giusto, è quel che sostenemmo noi, qui. Quindi ci vuole un candidato della sinistra che sia gradito alla destra. No, questo è un errore. Un candidato di quel tipo è destinato a essere divorato dalla sinistra. Occorre l’esatto opposto, in omaggio alla semplice constatazione che la maggioranza elettorale, dal 1994 a oggi, si trova dall’altra parte, e che se anche così non sarà a fine febbraio, quel risultato sarà gravato da una pesante ipoteca: la somma del vincitore e del secondo piazzato non farà la metà degli elettori. Quando si ragiona di Quirinale, meglio non dimenticarsene.
Questa consapevolezza è ben presente nella riflessione politica di Massimo D’Alema, anche quella raccolta in un libro scritto con Peppino Caldarola (ma perché intitolarlo “Contro corrente”? non lo è proprio per niente: un uomo dell’intelligenza di D’Alema sa benissimo che il comunismo è sempre stato una inammissibile porcata, solo che l’idea di andare contro corrente, appunto, non gli sconfinfera). Questa consapevolezza, scrivemmo, dovrebbe portare a una condotta berlingueriana. A Repubblica dovrebbero ricordarsene, per il tanto inchiostro che fu profuso nel sostenere quella politica.
Ma un patto per cosa? Questo è il punto. Un patto per sopravvivere all’evidente e dirompente erosione del consenso sarebbe più inutile che inguardabile. Un patto per allungare la vita all’esistente sarebbe suicida. Serve un patto per cambiare la Costituzione, per rendere la nostra una democrazia governante, dotata di netta separazione fra i poteri e munita di un sistema elettorale (materia non costituzionale) che non umili gli elettori e degradi gli eletti. Su questo va fatto il patto. Ed è possibile.
Non può che essere stipulato fra le forze che non hanno smarrito il senso del futuro e che non campano solo profittando sul presente. Monti, nel frattempo, potrebbe approfittarne per colmare le troppo grandi lacune in cultura del diritto, talché la smetta di dire che se sarà nuovamente presidente del Consiglio s’impegnerà a diminuire i parlamentari. Qualcuno gli regali una copia della Costituzione, magari con le figure, in modo che capisca che quella non è materia governativa. E qualcuno gli suggerisca che certe cose vanno bene in bocca a Beppe Grillo, mentre il prof. potrebbe utilmente dirci come votò, quando il numero dei parlamentari fu diminuito, attenuato il bicameralismo perfetto e corretto l’obbrobrio della riforma del Titolo quinto. Salvo che un referendum popolare (2006), sostenuto dalla sinistra, pretese un numero di parlamentari più alto, il bicameralismo fotocopiante e lo scasso dello Stato unitario.
Pubblicato da Libero