Politica

Il regionalismo fallito

Il federalismo non è mai nato, né mai nascerà, in compenso il regionalismo agonizza, il provincialismo si putrefà sotto gli occhi di tutti e i comuni, unico ente territoriale che abbia a che vedere con la storia d’Italia, sono in bancarotta. Il lato negativo è piuttosto evidente, quello positivo consiste nel fatto che si possono tagliare le spese di queste matriosche amministrative, al tempo stesso rendendo migliore la vita dei cittadini e più facile quella delle imprese.

Sulle provincie tutti credono di conoscere la ricetta risolutiva: chiuderle. Se ne discute da quaranta anni, intanto quelle aumentano. Il fatto è che sono il problema minore, benché il più inguardabile. Sopprimendole si risparmierebbe relativamente poco, in termini di spesa pubblica, ma si farebbe pulizia estetica. Vanno chiuse, certamente, mentre l’ipotesi di accorparne alcune è sciocca, inutile e complicata.  Senza dimenticarsi delle comunità montane, alcune delle quali si adagiano sul mare. Il grande fallimento, però, non è quello delle provincie, visto che da quattro decenni se ne vorrebbe fare a meno, bensì quello delle regioni. Sanità, trasporti, smaltimento dei rifiuti, sono solo tre temi sui quali il regionalismo è fallimentare. E si tenga presente che, al netto della spesa pensionistica, i trasferimenti di denaro agli enti locali assorbono il 60% della spesa pubblica. Stiamo quindi parlando di un capitolo imponente.

In quella quota di soldi statali, che vanno verso gli enti locali, è già racchiuso il fallimento delle autonomie. Nessuno può essere autonomo se non autosufficiente. Difatti nessuno lo è, perché il desiderio di far coincidere le mani (anche politiche) di chi tassa con quelle di chi spende, in modo che ci sia responsabilità per le scelte compiute e possibilità che gli elettori le apprezzino o rigettino, è rimasto tale: un desiderio. In queste condizioni i necessari tagli della spesa pubblica, se non vogliamo che s’abbattano solo sui servizi ai cittadini, devono chiudere l’agonia, cercando di salvare il buono (poco) e gettare il marcio (vasto).

Le regioni hanno fallito anche perché si pretende che siano tutte uguali, nel loro funzionamento, mentre vanno da quelle con 300 mila abitanti a quelle con 10 milioni. Uguali e replicanti funzioni statali. A questo s’è aggiunta la sciagurata riforma del titolo quinto della Costituzione, messa in atto da una sinistra sempre pronta a dire che la Costituzione non si tocca, invece l’hanno tritata, per far concorrenza propagandistica alla Lega. Il risultato è l’eclissi dell’interesse nazionale, senza che sia nata alcuna identità regionale. Non c’è un solo italiano che si pensi abitante della propria regione, mentre in molti sono legati alla propria città, o alimentano rivalità, auspicabilmente sportive, con altre città (quasi sempre della stessa regione). Nessuno va in Veneto, o in Calabria, semmai a Padova o sulla Sila. Ebbene, siccome i soldi scarseggiano è ora di buttare via le idee inutilmente costose, conservando quel che di buono c’era nella stagione federalista: la sussidiarietà, l’idea che l’ente territoriale superiore non debba fare quel che può fare l’inferiore, che lo Stato, nelle sue varie articolazioni, non debba fare quel che sa fare il mercato.

I comuni sono, e non è un caso, l’unico esempio di legge elettorale che abbia funzionato. I cittadini ricordano il nome del sindaco, al contrario di quello di chi presiede la regione, e ricordano le cose che ha fatto, o non ha fatto. C’è un rapporto diretto possibile. Purtroppo, però, proprio i tagli della spesa pubblica hanno messo sul lastrico i comuni, la cui promessa capacità impositiva è stata usurpata dallo Stato centrale. Qui si deve invertire la rotta, consegnando maggiore potere all’autonomia.

Dove, invece, i comuni devono dimagrire è nel settore aziende municipalizzate, in quegli animali misti nei quali si chiamano capitali privati, si assegnano compiti pubblici e si conservano maggioranze societarie in mano alle giunte comunali. Vendere, accorpare, disboscare. Per garantire la pulizia della città non solo il sindaco non deve essere il proprietario dell’azienda della nettezza urbana, ma gli viene meglio esserne l’esigente cliente. Su questa strada (virtuosa) c’è un macigno (vizioso): il dissennato referendum sull’acqua, che in nome dell’antipolitica vuole che tale servizio resti nelle mani dei politici. Un capolavoro di follia e trasformismo. Osservate come la sinistra capitolina s’oppone alla vendita di un’ulteriore quota dell’Acea e fatene tesoro per capire che vanno vendute tutte e in toto.

Rivedere la governance degli enti locali porta non solo a forti risparmi, ma libera il mercato, gli imprenditori e i cittadini da amministrazioni che, non avendo altro da fare, inventano competenze e obblighi, con i quali non si tutela nulla ma si rende tutto più lungo, più lento, più oneroso e, come se non bastasse, più zozzo.

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