Politica

Il tempo che resta

I personalismi immiseriscono la politica (quando possibile) e confondono le idee. Quando portano a delle crisi è segno che i protagonisti sono particolarmente egocentrici, o che la loro condotta cavalca l’onda di un problema più grosso, con radici istituzionali e ripercussioni elettorali. Questo è quel che sta accadendo nel centro destra, come, del resto, era accaduto nel centro sinistra, quando capitò a loro di avere la maggioranza in Parlamento.

Chi ha un po’ di memoria ricorda che Gianfranco Fini sarà anche il cofondatore del Popolo delle Libertà, ma quando quel partito prese forma, annunciato da Silvio Berlusconi in piazza, a Milano, la sua prima reazione fu: se lo faccia da solo. Ci mise poco, allora, a cambiare indirizzo, entrando a far parte di quel contenitore politico che, di lì a pochissimo, vinse le elezioni politiche e gli consentì di arrivare dove si trova, alla presidenza della Camera. Il problema era già chiaro allora, ma con le elezioni regionali è ingigantito: a Fini premeva far valere la forza del partito che guidava, mentre a Berlusconi far nascere un coagulo elettorale capace di contrapporsi a quello di sinistra, che Veltroni definiva “a vocazione maggioritaria”, le recenti amministrative hanno dimostrato che questo strumento è prezioso nelle mani del presidente del Consiglio, capace di combattere e raccogliere voti in proprio, mentre è divenuto pesante per alleati che vedono diminuire il loro peso specifico. L’errore che commettono, credo, consiste nel ritenere che un ruolo si conquista contendendolo a Berlusconi, mentre, invece, si dovrebbe guadagnarlo sul terreno politico.

Fra oggi e giovedì si terranno riunioni politiche interne al centro destra. Chi fa politica guardandosi l’ombelico concentrerà l’attenzione sul ruolo crescente della Lega, chi rivolge lo sguardo fuori dal quartiere parlamentare si porrà il problema di quali idee e proposte porgere agli italiani. E’ vero che la Lega tende a correre per i fatti propri, ed è vero che avere incarichi relativi alle riforme istituzionali non autorizza a considerarle cosa propria e intesservi relazioni nei palazzi romani, ma è anche vero che una simile condotta non si contrasta invocando roba scialba, come la collegialità o la concertazione, che, oltre tutto, fanno venire l’orticaria a tutti quelli che si guadagnano da vivere senza dipendere dalla politica. Il dinamismo della Lega non deve essere imbrigliato, ma a quello si deve accompagnare una non minore propensione al riformismo e al cambiamento. Se gara deve essere che sia di velocità, non di sgambetto autolesionista.

Chi vuole contare deve cercare spazi rivolgendosi al Paese, facendo i conti con i problemi di un sistema che perde velocità e genera timori, non pestando i piedi a casa Berlusconi, come se quello fosse il centro dell’universo. Chi aspira alla guida politica, di una coalizione o di un governo, deve misurarsi con i problemi del mercato, dello stato sociale, del fisco, non fare il figlio dei fiori punzecchiando gli alleati con temi rilevanti, ma niente affatto decisivi. Insomma, sul fine vita o sull’aborto i fronti possono ben essere trasversali, mentre l’Italia attende di sapere, da chi governa, come e quando si pagheranno meno tasse.

Il tempo non è infinito, la legislatura sta imboccando la sua seconda e ultima parte. O ci si mette al lavoro parlando al futuro, in un Paese in cui la disoccupazione giovanile e femminile è altissima, oppure meglio non perdere tempo e non farlo perdere all’Italia. Parlare solo di politica politicante serve solo a demolire quel che resta della sua affidabilità e credibilità.

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