Politica

Il trio trescano

Ancora una volta la confusione politica è figlia della debolezza istituzionale. Ad una settimana dall’appuntamento parlamentare, nel mentre chi ha chiesto la sfiducia spera che neanche si tenga il dibattito, puntando alle dimissioni del governo (cosa che non accadrà), l’attenzione si sposta verso il Quirinale. C’è chi lascia intendere di avere già concordato una regia, chi annuncia quale sarà la reazione, ma nessuno sa di che parla. Forse solo quelli che stanno zitti. Tutto questo perché il nostro sistema istituzionale consente l’apertura di crisi senza automaticamente imboccare alternative, siano queste politiche o elettorali. A questa malattia c’è un rimedio semplice e lineare: la sfiducia costruttiva.

E’ un istituto presente nella Costituzione tedesca, come in quelle spagnola e belga. In Germania ne hanno fatto lo strumento di una lunga stabilità, visto che, dal 1949 ad oggi, solo due volte il cancelliere è stato sfiduciato e il governo è, conseguentemente, cambiato in corso di legislatura. Se la traducessimo nell’impazzimento tatticistico di questi nostri giorni quel tipo di sfiducia saprebbe restituire dignità e sensatezza al dibattito: i parlamentari possono ben chiedere che il governo caschi, ma solo a condizione che ne sappiano indicare un altro, per metterlo al suo posto.

Se adottassimo quel rimedio Casini, Fini e Rutelli smetterebbero d’essere il “trio trescano” e diventerebbero, virtuosamente, il “trio escano”, allo scoperto. Non servirebbe a nulla sommare delle disomogeneità, con l’unica ambizione d’evitare che chi ha vinto le elezioni possa governare, ma si dovrebbero trovare nuove omogeneità, in modo che dal precedente voto degli elettori nasca un nuovo governo. La prima Repubblica reggeva, anche senza questa saggia condotta, perché, in fondo, è stata una lunga stagione di stabilità. I lettori non credano che io sia impazzito, perché è vero che i governi furono numerosi e di vita breve, ma le loro formule furono solo quattro: centrismo, centro sinistra, solidarietà nazionale (breve) e pentapartito. Le crisi riassestavano gli equilibri interni, sfruttando l’elasticità del partito di maggioranza relativa, la Democrazia Cristiana, frammentato in correnti e radicato nella realtà sociale e storica. La seconda Repubblica, mancante di tutto questo, non produce governabilità neanche nei periodi di stabilità, il che porta al progressivo, e pericoloso, distacco fra la politica e la realtà.

La sfiducia costruttiva reintrodurrebbe un metodo di lavoro, imporrebbe agli sfiducianti di dire quel che vogliono e non solo quel che aborrono, sposterebbe il baricentro verso una discussione programmatica e non solo personalistica. Farebbe cessare il più dissennato gioco di questi nostri anni, il frullato delle diversità che si coalizza solo per vincere, per prevalere, non sapendo cosa e come altro fare. Inoltre, la sfiducia costruttiva è l’unico modello seriamente alternativo alla Repubblica presidenziale, posta la necessità di cambiare gli equilibri costituzionali, oramai impallati, accrescendo i poteri e l’efficacia dell’esecutivo. Ignorando la questione si continuerà, ora e in futuro, a tirare la giacca del Presidente della Repubblica, o a tirargli addosso accuse di tradimento del ruolo. Non potrà andare diversamente, perché il tessuto costituzionale è incompatibile con il filo elettorale, sicché il vestito sarà sempre sbilenco, quando non a brandelli.

Affronteremo questa crisi, ovviamente, senza potere utilizzare la sfiducia costruttiva, estranea alla Costituzione vigente. Ma è questo il punto: ciascuno dica agli elettori, cui si finirà con il rivolgersi, a quale modello intende far riferimento, quale meccanismo vorrebbe veder funzionante, ciascuno sveli le proprie idee per il futuro. Se ne ha. Mentre incedere al buio delle tresche e dei palazzi sussurranti, sperare che sia il Quirinale e non gli italiani a ridistribuire le carte, puntare all’azzardo della demolizione senza progetti di ricostruzione, serve solo ad accomunare la classe politica tutta in un giudizio che colpirà la salute della democrazia.

Poi, si sa, gli elettori voteranno, ancora una volta, più contro chi non vogliono vedere al governo che a favore di quelli da cui sperano d’essere governati. Oltre tutto recandosi sempre meno numerosi alle urne, quindi dando corpo a una bocciatura complessiva. Tale atteggiamento si proietta poi nel Parlamento, non certo per colpa esclusiva del sistema elettorale, insediando forze che si coagulano solo per impedire e non per fare. E’ l’anticamera della trombosi, che colpirebbe un corpo già debilitato, un Paese che da troppi anni ha un futuro di pochi mesi, se non di poche settimane.

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