Politica

Il valore della morte

Dei morti non si parla, se non per ricordarne le qualità, non intendo, quindi, parlare di Maria Grazia Cutuli. Intendo parlare della sua morte e dello spettacolo grottesco che quest’evento ha scatenato.

La morte di alcuni giornalisti, colpiti dal mitra di una banda di presunti talebani, cui hanno fatto seguito altri episodi di violenza ed altre morti, deve aiutarci a capire che quella che si combatte, in Afganistan, è una guerra vera, non un set cinematografico. Cadono bombe vere, volano vere pallottole, si corrono veri rischi. Alcuni giornalisti sono caduti in un’imboscata e sono morti. Al lutto, naturalmente, si accompagna l’ammirazione per quanti hanno voluto fare il proprio mestiere senza starsene al bar dell’albergo.

Punto a capo. In Italia, invece, si è messa in scena una tragedia nazionale senza confini e senza senso del ridicolo. Si è parlato di quelle morti come se non si trattasse di adulti capaci di intendere e di volere, del tutto consapevoli di correre dei rischi. Vorrei dire che erano anche pagati per correre quei rischi, se non fosse che, nel grottesco generale, un posto di tutto riguardo spetta al direttore del Corriere della Sera, Ferruccio De Bortoli.

Già, perché il buon direttore si è mostrato commosso, è volato dalla salma, in chiesa ha detto di avere il rimorso per il troppo poco tempo dedicato a quella giornalista del suo giornale. Ma quella giornalista si trovava in Afganistan, dopo essere stata in altre parti del mondo, con un contratto da redattore ordinario, ottenuto dopo anni di contratti di sostituzione. Il direttore l’ha nominata, sul campo e da morta, inviato speciale. Ma se del lavoro di quella giovane donna aveva tutto quel rispetto e tutta quell’ammirazione, se comprendeva i rischi e, anzi, invitava alla prudenza, chissà perché il signor direttore non ha pensato di riconoscere contrattualmente il lavoro che quella giornalista effettivamente stava già facendo.

Per carità, non si può certo leggere una morte alla luce lugubre di una vertenza sindacale. Chi scrive, poi, è anche favorevole all’abolizione dell’albo dei giornalisti. Ma se c’è una cosa che dà l’orticaria è la retorica melensa ed insincera. La morte non è più o meno tragica e definitiva a seconda che colpisca un principe od un ignobile (categoria cui ci onoriamo di appartenere), ma è da cretini far principi i morti e trattare ignobilmente i vivi. Ed i tanti tromboni che hanno dato fiato alla cacofonia funeralesca si son ricordati che qualche mese fa è stato ammazzato, a Tiblisi, in Georgia, mentre faceva il suo lavoro, Antonio Russo, corrispondente di Radio Radicale? Era andato a sollevare la coltre di silenzio che copriva e copre il conflitto ceceno, cos’è, ha commesso l’errore di farsi ammazzare troppo lontano dalla CNN? Perché tanta commozione di oggi fu risparmiata allora?

No, nella differenza fra i due casi non c’entrano nulla la professionalità, la bravura ed il coraggio di Maria Grazia Cutuli e di Antonio Russo, c’entra, invece, la cattiva coscienza di un giornalismo che preferisce farsi il funerale, piuttosto che l’autopsia.

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