Per la prima volta nella storia l’impeachment è evocato dal Presidente della Repubblica che ne potrebbe essere oggetto, anziché dai suoi (inesistenti) oppositori. Nessuno, credo, abbia mai pensato d’avviare la procedura di messa in stato d’accusa, per tradimento della Costituzione, o anche solo per inadeguatezza al ruolo. Intendiamoci, non che sia illegittimo od oltraggioso, tanto è vero che lo stesso Giorgio Napolitano accompagnò un’operazione di quel genere nei confronti di Francesco Cossiga. Semplicemente, a nessuno passava per la testa. Ma al Quirinale sono divenuti insofferenti anche alle critiche, pretendono che si obbedisca all’ordine di non fare certe inchieste giornalistiche, oppure che si dimentichino gli interventi del Colle sul calendario dei lavori parlamentari, come i giudizi preventivi sulle leggi in discussione. Che, come dire, non sono esattamente coerenti con il dettato costituzionale. Un nervosismo che non va strumentalizzato, ma compreso, essendo l’ennesimo segnale di un apparato istituzionale che scricchiola.
Il ferragosto, passato all’insegna del federalismo meteorologico, è alle spalle. Gli italiani hanno potuto viverlo o disinteressandosi del tutto delle faccende politiche o assistendo a scontri dall’approdo ancora incerto. L’unica cosa sicura è che l’esito elettorale di due anni fa è stato compromesso. Ancora una volta, come è sempre capitato, dal 1994 ad oggi, la causa del cedimento è interna alla maggioranza, quale che essa sia. Le forze politiche e i responsabili istituzionali non sottovalutino il loro dovere: dare una prospettiva, dei punti di riferimento, agli italiani che, fra qualche giorno, riprenderanno a fare conti che sono solo, e assai brevemente, stati sospesi.
Conformismo e superficialità tendono a considerare con sussiego e ironia i “governi balneari” d’un tempo. Non erano un bel vedere, ma avevano un senso: sospendere le ostilità, consentire una pausa di riflessione, nella consapevolezza che la maggioranza politica della primavera sarebbe stata, più o meno, quella dell’autunno. Gli spostamenti del baricentro erano tutti interni a quella maggioranza, prima centrista, poi di centro sinistra, infine pentapartito (che era, in fin dei conti, la sommatoria delle prime due). Ora la situazione è del tutto diversa, perché gli elettori vengono chiamati a scegliere fra due schieramenti, potendo accomodarsi anche su forze intermedie o estreme, ma largamente minoritarie, in una condizione che esclude la legittimità di cambi di maggioranza in corso di legislatura. Il baricentro dovrebbe potersi spostare solo all’interno dei due schieramenti, ma ogni volta che capita crolla tutto perché il potere di ricatto è troppo forte, la coesione politica interna troppo debole, la forza autonoma del governo inesistente. Ne discende quel che è evidente da molti anni: le istituzioni nate per contenere e mettere a frutto il gioco politico dei singoli partiti (con un sistema elettorale proporzionale) non sono in grado di dare un senso allo scontro fra e nelle coalizioni contrapposte (con un sistema elettorale maggioritario che finge di servire una realtà bipolare). L’attuale legislatura è iniziata all’insegna di tale mistificazione, con la pretesa di dare vita a due “partiti unici”. Sostenemmo che non stava in piedi, sicché oggi non ci stupiamo a vederla sbriciolarsi.
Complice l’estate, sospinto da un mondo che ha scambiato la vittoria elettorale per la stagione degli amori, sembra quasi che tutto dipenda dalle bizze di una sola persona e dalla scoperta delle sue magagne. Non è così, perché preesistevano entrambe. La ragione profonda sta in un sistema che non è più né carne né pesce, all’interno del quale le culture politiche sono state sostituite da interessi miopi e compulsivi. Il nostro mondo politico, generalmente inteso, non è in grado di pensare al futuro perché non ha futuro. Dopo di che, si possono prendere nuovi amanti e spedire le cucine nel principato di Monaco o nel granducato di Ladispoli, ma non cambia un fico secco.
Sembra che alla classe dirigente non importi una cippa del fatto che la Cina superi il Giappone, che l’Italia si sviluppi meno degli altri Paesi, che la nostra scuola penalizza i ragazzi, che la ricerca si cerca sedi all’estero, che gli investimenti esteri sono da noi indirizzati nei settori che servono a esportare valore, trasformandoci in un Paese di consumatori svogliati piuttosto che di produttori alacri. Sono temi espulsi dalle prime pagine, sostituiti con roba da cortile, utile solo a stabilire che il più pulito ha la rogna. Perdiamo produttività, da molti anni, ma descriviamo le vicende della Fiat come se fossero intemerate del signor Sergio Marchionne o affari di quegli operai che devono vedersela con la concorrenza delle tute blu polacche o serbe.
Se l’autunno sarà affrontato con il cipiglio delle comari isteriche, intente a regolare i conti con il passato, si perderà la possibilità di far tornare quelli del futuro, assai prossimo. Nessuno avvierà iniziative d’accusa, ma quelle di sfiducia collettiva, nel Paese, sono già in corso.