Azzuffarsi è una bella cosa, ma, almeno, lo si faccia non perdendo per strada il motivo del contendere. La storia delle impronte digitali, ad esempio, muove un gran rumore ma non ci si capisce niente.
Sono fra i cittadini italiani le cui impronte digitali sono state prelevate. Sento la cosa come un’ingiustizia proprio perché discriminatoria. Però, a ben pensarci, il fatto che le mie impronte giacciano in un archivio non mi disturba affatto: se dovessi ammazzare qualcuno a mani nude mi troverebbero facilmente, e lo trovo sportivamente giusto; se un lettore inferocito mi decapitasse sarebbe più facile identificare i miei poveri resti. Quindi, a parte la discriminazione, nessun mio diritto fondamentale è stato violato.
Se, nel rinnovare un documento d’identità, mi chiedessero di lasciare le impronte, dovrei offendermi? E perché? Se, volendo entrare in un qualsiasi paese straniero, mi chiedessero all’ingresso di poggiare l’indice su un vetrino, dovrei voltar le spalle indignato? E perché? Anzi, se al posto delle foto (che sembrano tutte segnaletiche), sui documenti, si mettesse l’impronta sarei felice: sono sicuro che il dito viene meglio.
Morale: pensare di raccogliere le impronte solo di alcuni tipi di immigrati, lasciando fuori altri tipi di extracomunitari (tipo attori americani e banchieri canadesi), è una di quelle idee stupide che si prestano a mille raggiri ed abusi; mentre, al contrario, raccogliere ed archiviare le impronte di tutti è assai meno invasivo di altre forme di prevenzione del crimine. In una pausa della zuffa si potrebbe provare a parlarne.