Le privatizzazioni sono una gran bella cosa, ma a forza di farle male si finirà con il rimpiangere lo statalismo. Quando ho letto i gran lamenti per la privatizzazione dell’acqua, con i soliti bau bau sulla logica del profitto, che presto ci asseterà, ho pensato, non avendo seguito la cosa, che al governo ne avevano azzeccata una. Non c’è ragione al mondo per cui i privati non possano gestire efficientemente un bene pubblico e limitato, con beneficio collettivo, tanto più che l’attuale gestione pubblica ha messo in tandem gli sprechi ed il clientelismo. Studiando la faccenda, però, mi sono accorto che, se non ci sbrighiamo a fare il necessario, si sono poste le premesse per un bel pastrocchio.
Attualmente la gestione dell’acqua è affidata a delle società che sono animali misti. A2A, Acea, Acegas, Aps, Enia, Hera e Iride, sono società a partecipazione privata, il cui controllo è nelle mani dei municipi (per giunta con un fenomeno di fagocitazione dei grandi sui piccoli). Non sono né pubbliche né private, mentre è totalmente pubblica la pugliese Aqp, ma pur sempre una società per azioni. Anziché conciliare l’interesse pubblico con un’amministrazione profittevole, questi strani animali finiscono con l’essere il trionfo del conflitto d’interessi, favorendo la convivenza dell’influenza della politica sulle nomine e l’interesse dei privati nell’azionariato. Roba da manuale, di come le cose non si devono fare.
Il decreto del ministro Andrea Ronchi (che si occupa di affari comunitari, quindi non c’entra niente, se non fosse che di tutto questo stiamo parlando perché l’Unione Europea ci aveva, anche in tema di acqua, messo in mora), prevede, da una parte, che gli animali misti potranno tenersi i contratti che hanno, e, dall’altra, che la quota pubblica deve scendere sotto il 40% entro il 30 giugno 2013 e sotto il 30% entro il 31 dicembre 2015. Il manuale del buon compratore dice, nella sua prima pagina: acquista da chi è costretto a vendere. Il manuale del buon venditore, di converso, avverte: non metterti nelle condizioni d’essere costretto a vendere. E’ quello che abbiamo appena fatto.
E questo è niente, perché, nel merito, le cose si fanno ancora più preoccupanti. Il primo problema delle acque italiane consiste nel fatto che ne perdiamo troppe, ben prima di arrivare ai rubinetti. Le trasportiamo con gli scolapasta, ed il resto è facile immaginarlo. In Puglia si arriva a perderne la metà, senza neanche irrigare i campi. Al tempo stesso, però, paghiamo l’acqua assai meno degli altri, in Europa e nel mondo. La privatizzazione (della gestione, ovviamente, non dell’acqua) si accompagnerà, pertanto, ad un aumento del prezzo. Non è un bel biglietto da visita, ma si potrebbe sopportarlo se i privati acquirenti fossero tenuti a precisi investimenti per migliorare la rete ed anche la qualità dell’acqua. Chi stabilirà, controllerà e sanzionerà? Non si sa. E non è un dettaglio.
La legge stabilisce che chi investe nella gestione delle acque non può guadagnare più del 7% del capitale investito. Al tempo stesso, però, le tariffe (amministrate) non possono crescere più del 5% ogni anno. Tali vincoli inducono al sospetto che i privati possano acquistare e non investire, lucrando nel tempo e senza sborsare altri capitali. E’ l’esatto contrario della logica di una sana privatizzazione, che si basa sulla chiamata del capitale privato a rischiare investimenti per rendere un servizio migliore, naturalmente traendo profitto, ma a valle del beneficio pubblico.
Infine (ma ci sarebbe dell’altro) chi sono i privati che possono comprare? Anche qui, si procede nella nebbia. Alcune partecipazioni sono acquistate da soggetti imprenditoriali che producono sistemi per la gestione delle acque. Benissimo, se si tratta di sinergie, ma malissimo se, invece, il profitto si sposta dalla gestione del servizio alle forniture alla società cui si partecipa. Taluni si spaventano per l’ingresso di operatori stranieri, io, invece, temo quelli non esportabili.
Morale: o ci sbrighiamo a dar vita a controllori efficienti e con poteri reali, in modo da sciogliere tutti questi nodi, o abbiamo messo in moto una macchina infernale, che, presto, ci precipiterà in cattive acque (come è capitato a Parigi, dove prima si è privatizzato ed ora si rimunicipalizza). Inoltre, la politica da seguire dovrà essere nazionale e non affidata alle spinte degli interessi locali, quindi tocca allo stesso governo che ha varato il decreto muoversi, ed in fretta.
Se non lo si farà, andrà a finire che, come nel caso di Telecom Italia, si prenderanno beni collettivi e li si affideranno a dei piranha privati, che, dopo averli spolpati, diranno: che, per caso, volete bere? In questo caso tocca scucire soldi pubblici per rifare la rete, giacché quella che gestiamo noi è peggiore, se possibile, di quella che ci lasciaste. Ed a noi, poveri cultori del mercato in un Paese di mercanteggiatori, si rivolgeranno sguardi torvi e severi, additandoci l’ennesimo fallimento di quel che, invece, non avremmo mai voluto. Quindi lo dico prima: così andando, finisce male.