Sergio Marchionne ha fatto tutto il possibile per dare una mano ai “No”, ma hanno vinto i “Sì”. La lettura del risultato finale non è sufficiente a comprendere le implicazioni politiche e sindacali del referendum fra i lavoratori di Mirafiori, che sono enormi. Il primo dato decisivo è relativo all’affluenza: hanno partecipato tutti. Il secondo riguarda il distacco fra le due opzioni: i Sì vincono con il 54,7%, quindi con un vantaggio significativo, ma non travolgente. Il consenso c’è stato anche fra gli operai, non solo fra gli impiegati, il che cancella decenni d’iconografia rossa. Attenti, però, a quel che arriva.
Non credo si posa dire che ha vinto Marchionne. Ha vinto il realismo. E neanche direi che hanno vinto alcuni sindacati su altri, perché, semmai, s’impone il tema della scarsa rappresentatività complessiva. La Fiom non ne esce con le ossa rotte, anzi, credo stiano festeggiando. Il vertice di quel pezzo di Cgil puntava alla rappresentanza dell’antagonismo, non a un diverso accordo contrattuale, puntava ad aumentare il proprio peso e dimostrare che gli “altri”, siano essi i vertici Cgil che ancora tentennano sullo sciopero generale (nonostante la genuflessione imposta a Guglielmo Epifani) o i sindacalisti che hanno firmato, non hanno più diritto di rappresentare la conflittualità di classe. Ovvero l’alfabeto cui s’è formato il sindacalismo italiano, non meno ideologizzato del sistema politico. Il problema, oggi, non è di Fiom, ma di Cgil: se non vuole restare fuori dalla realtà, se non vuole condannarsi a essere solo la calamita delle proteste, se non vuole diventare un cobas qualsiasi, deve rompere con il proprio collare metalmeccanico. E neanche è solo un problema di Cgil, perché anche Cisl e Uil hanno lasciato fare la campagna referendaria a Marchionne. Il nodo non è il contratto, ma quel che arriva appresso.
Marchionne, dal canto suo, ha posto un problema ineludibile a Confindustria: violando l’intero arcobaleno del sindacalmente corretto, sverginando ogni ritrosia e moderatismo associativo, ha usato il più ruvido, e talora insolente, dei linguaggi per dimostrare che i vecchi riti sono fuori dal mondo. Il referendum seppellisce ogni idea di concertazione, marginalizza il sindacalismo, dei dipendenti come degli imprenditori, e apre un problema ineludibile: chi garantisce il mantenimento dei patti?
C’è un debito, nei confronti dei lavoratori Mirafiori, come di quelli che votarono a Pomigliano. Ora devono arrivare gli investimenti. Come era chiaro che senza il Sì quegli stabilimenti sarebbero stati avviati alla chiusura, era altrettanto chiaro che le vendite Fiat erano in contrazione. Ciascuna delle parti conosceva la realtà. Ciascuno s’è comportato con realismo. Ora, i fatti.
Governanti e legislatori non possono considerarsi spettatori. Magari tifanti, ma pur sempre in tribuna. Se il tema della rappresentanza sindacale attende che si dia applicazione al dettato costituzionale, in modo che non si sovrappongano temi diversissimi, quali gli interessi reali dei lavoratori e il rispetto del sistema democratico, il tema della rappresentanza politica non può essere semplicisticamente risolto con il richiamo ai fine settimana elettorali. Gli italiani votano liberamente, è vero, ma anche inutilmente. Ciascuno può avere l’idea che vuole, sul sistema industriale e su quello contrattuale, ma se si crede di potere mettere sulle spalle delle stesse persone sia l’esposizione ai rigori dei mercati aperti che la sottoposizione ai livori di un fisco assetato di quattrini, incapace di discernere fra chi produce e chi svicola, si commette un errore pericoloso.
Silvio Berlusconi disse, sul finire della campagna referendaria, che Marchionne aveva ragione: se non vincono i Sì è giusto andare via. Più che giusto, sarebbe stato inevitabile. In ogni caso, anche quella dichiarazione non è certo servita a rendere più forti i fautori del consenso. Ebbene: i lavoratori non possono espatriare, tocca al governo premiare la loro scelta. Non si tratta di mettere mano al portafogli, sia l’impresa che i lavoratori sanno che non si torna all’economia assistita, ma di mettere mano alle riforme, prima fra tutte quella fiscale.
Solo il giornalismo di palazzo può credere che ci sia un’Italia appassionata alle inchieste sul pecoreccio. Mentre, e lo abbiamo già vissuto, una classe politica viene spazzata via dal discredito solo dopo aver perso la capacità d’essere credibile.