Politica

In Iraq si resta

Donald Rumsfeld vola in Iraq, compiendo un gesto politico di grande valore, ed assai apprezzabile. Le foto che documentano i maltrattamenti subiti dagli iracheni catturati, ad opera della truppa statunitense, non solo sono eloquenti, ma sono anche numerosissime.

Il che mette in evidenza sia la “normalità” di quei comportamenti, sia l’assenza di un elementare buon senso.
Ci sono responsabilità personali e responsabiltà politiche. Il presidente Bush ed il segretario alla difesa si sono assunte quelle politiche.
Volando in Iraq Rumsfeld si è fatto garante di due cose: la prima è che ci sarà un’inchiesta e gli esecutori di quegli atti saranno puniti; la seconda è che, d’ora innanzi, nulla di simile potrà ripetersi. Un comportamento esemplare. Certo, sarebbe stato mille volte meglio che la catena di comando fosse stata in grado d’evitare quelle degenerazioni, ma una volta combinato il guaio, una volta incassato il danno, la democrazia statunitense mostra di sapere rispondere con dignità e coraggio.
Non è un caso, del resto, che pur in una dura ed infuocata campagna elettorale, lo sfidante democratico, Kerry, non risparmia critiche, anche a proposito dell’Iraq, al governo in carica, ma non si sogna neanche lontanamente di proporre un improponibile ritiro delle truppe.
Quale che sarà l’esito delle elezioni, quindi, l’impegno, per evitare che la crisi irachena diventi l’ulteriore detonatore in un’area che non sopporterebbe ulteriori squilibri, continuerà. Questa è anche la posizione dei laburisti inglesi, che Peter Mandelson ha efficacemente riassunto e ricordato alla sinistra italiana: ritirarsi sarebbe irresponsabile; si sono commessi errori, ma nessuno di quelli ci autorizza a cambiare opinione. Giusto.
Anche nella sinistra italiana si era aperto qualche spiraglio di ragionevolezza. Lo avevamo subito notato e valorizzato, riprendendo gli interventi di Rutelli, di Prodi, di Amato e di Sartori. Quello spiraglio, adesso, si chiude. Non m’interessa, non m’interessa affatto indagare se è vero, o meno, che la ricucitura unitaria, l’unanime richiesta di ritirare i nostri soldati, sia dovuta ad un andamento negativo dei sondaggi elettorali. E’ ininfluente, anche perché, se così fosse, sarebbe la più sbagliata delle reazioni: la sinistra sarà di governo non quando avrà ripreso un punto percentuale, ma quando sarà salda su posizioni compatibili con gli interessi e la dignità nazionali.
Prodi e Rutelli, dunque, si rimangiano il detto e marciano dietro l’insegna di una mozione per il ritiro. Apparentemente inconsapevoli del danno che arrecano a se stessi. La penso, a tal proposito, come il Riformista, che si sforza di dar voce ad una sinistra che non subisca la deriva delirante del pacifismo piazzaiuolo: che si voti, quella mozione, e che la si batta, al più presto.
Una sola cosa, però, vale la pena ricordare, agli uomini in camicia americana di questa sinistra: la risalita delle truppe statunitensi, che sessanta anni fa ridiede libertà all’Italia, e che essi mostrano di voler festeggiare, non fu una passeggiata a suon di jazz, sigarette e cioccolata, fu una guerra. Una guerra con scontri duri, con morti che ancora riposano nei cimiteri militari, con violenza, sangue e dolore, con civili che morirono innocenti. I nazisti erano impegnati a scappare. I fascisti resistenti furono passati per le armi, più spesso per le armi imbracciate da altri italiani. Così, per memoria, tanto per non credere che ricorra il sessantennale di una scampagnata.

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