Persi appresso a gonne, gonnelloni e calzoni, in molti si sono distratti dai dati dell’economia, da ultimo quello relativo all’inflazione. Eppure sarà su questo terreno che si misurerà la tenuta dei governi europei, incluso quello italiano. Saranno i problemi reali, non gli sbertucciamenti, a misurare l’esistenza o meno, nei governi e nelle opposizioni, di una politica che possa, dignitosamente, definirsi tale.
Per fronteggiare la crisi sono stati pompati molti soldi pubblici. Noi italiani lo abbiamo fatto assai meno di altri, perché già spompati dal debito pubblico, che, almeno in questo caso, ci ha preservato da errori. Quando la ripresa si farà vedere, quei soldi, quei sostegni alla domanda, produrranno inflazione. Non è necessariamente un male. Fin qui il reddito medio è aumentato e, in qualche caso, come in quello dei dipendenti pubblici, ben più dell’inflazione. A questo s’aggiunga il contenuto o negativo andamento dei prezzi. Il potere d’acquisto reale, insomma, è cresciuto. L’inflazione cancellerà questi vantaggi e peserà sulle famiglie. Al tempo stesso, però, sarà un sollievo per chi è indebitato, a cominciare dallo Stato. Si tratta, insomma, di maneggiarla con cura. Quel che allarma, però, è l’inflazione senza ripresa.
L’Europa è ancora in uno stadio deflativo, mentre da noi l’inflazione cresce, sebbene di poco. Leggo che si attribuisce la responsabilità al petrolio, ma la tesi è bislacca, visto che lo comprano tutti. Semmai è dei carburanti, che in Italia commercializziamo in modo inefficiente, quindi più costoso, e con meno concorrenza, quindi meno propensione al contenimento del prezzo. Ed è proprio questo il problema: quando l’Europa cresceva, noi crescevamo meno, quando è caduta, noi siamo caduti di più, quando s’intravede la ripresa i nostri prezzi salgono per primi, anche se non salgono i consumi. Sono tutti sintomi di un mercato che funziona male. Sono problemi non mondiali, ma nostri.
Il governo ha scelto d’intervenire sugli ammortizzatori sociali e star fermo sul resto, secondo la teoria che in un momento di crisi non si devono introdurre nuove incertezze. C’è del vero, dal punto di vista delle sicurezze sociali, ma c’è anche un abbaglio, perché se non ci liberiamo dai nostri mali, dalle arretratezze strutturali (dalle pensioni alla giustizia, dall’istruzione al mercato del lavoro), prenderemo meno il vento della ripresa. La crisi era l’occasione, che la politica aveva, per parlare del nuovo e promettere un’Italia migliore, chiamando a raccolta anche gli esclusi. Ma è proprio la politica, nell’intero emiciclo, a mostrarsene incapace.