Serve a poco concentrarsi sulla scena, ove il governo s’è esibito facendo pubblicare un decreto ministeriale sulla Gazzetta Ufficiale, salvo poi ritirarlo nel giro di poche ore, dopo avere provato a difenderlo. Ritirato non perché ve ne fosse motivo di merito, ma perché s’era divisa la maggioranza, già di suo coesa soltanto nel voler restare maggioranza. Condotta non commendevole. Ma a contare non è questa scena, bensì il retroscena. Inteso non come ombroso tramare, ma come solare irragionevolezza delle motivazioni. Sono quelle il problema.
Per non scaricare tutte le colpe sul vice ministro Leo, la presidente del Consiglio ha finito con l’attribuirgli la peggiore: «Il testo era stato preparato dagli uffici». E lui cos’è, un passacarte? Non lo ha letto o non lo ha capito? Si può convenire o dissentire dalle tesi di Leo (non condivido il suo argomentare sulla falsa flat tax), ma è irriguardoso supporre che un fiscalista non capisca un testo sul fisco. E vabbè, annettiamo anche questa all’imbarazzante scena. Veniamo alla sostanza.
La tesi esposta da Meloni è: «Siamo stati sempre contrari» al redditometro, considerato «invasivo». Sul «sempre» c’è da ridire, visto che la formula ‘invasiva’ fu adottata dal quarto governo Berlusconi, ove Meloni sedeva come ministro. A me non parve invasivo, il problema era ed è non nell’accertamento ma nella giustizia fiscale. Ma ne ho scritto ieri. Poi ha aggiunto che il governo è impegnato a «contrastare la grande evasione, chi finge di essere nullatenente, senza vessare le persone comuni». E qui c’è una matassa di errori.
Intanto perché per colpire il nullatenente con consumi ricchi si deve scovare uno che si finge persona comune. Anzi, bisognosa d’aiuto. Poi perché per individuare una tale posizione è necessario incrociare dati diversi, ad esempio prendendo in esame dove abita. Facile, se non fosse che le componenti dell’odierno governo s’opposero alla revisione del catasto proposta dal governo Draghi; la quale revisione avrebbe, fra le altre cose, scovato le residenze neanche accatastate ovvero realizzate irregolarmente, in evasione fiscale e pagate da evasori fiscali. Cosa resa ovvia dal non potere acquistare con bonifico e presso un notaio un appartamento che non risulta esistente. Poi, per carità, si può ritenere che anche queste siano «persone comuni», ma fai prima a dire quel che molti già sospettano: chi paga tutto è scemo.
C’è un altro aspetto, peggiore: credere che siano dei cattivoni i grandi evasori e dei poveracci costretti dalla società e dal sistema i piccoli evasori. Se si ragiona a questo modo si dovrebbe farlo anche in campo penale, tralasciando di «vessare» i piccoli imbrogli, uno scippo, una rapina dal salumiere e concentrandosi sulle stragi e sulle banche scassinate. Solo che ciò non soltanto sarebbe irragionevole, ma l’opposto di quel che il medesimo governo ha fatto ideando nuovi reati e più alte pene per chi lavora a un concerto non autorizzato (che è giusto sia punito ma esisteva già il reato contestabile, mancando la giustizia applicabile che però continua a mancare).
Errore logico che ne contiene un altro, come una matrioska dell’insensatezza: supporre che il grande – ma quanto? come si diventa grandi? – evasore arrechi alla collettività un danno superiore ad altri. Il che è vero singolarmente ma non lo è collettivamente, perché tanti evasori diffusi sottraggono più degli evasori con fiscalisti. In ogni caso, ove mai vi si voglia accedere, questa tesi davvero iniqua somiglia più alla piattaforma di una sinistra debosciata che non a quella di una destra angosciata dal venir meno della credibilità dello Stato e del rispetto verso la Nazione.
Comunque, supporre che possa far perdere voti il contrasto all’evasione – qualsiasi evasione – significa ritenere che ci si sta rivolgendo a una massa di cittadini evasori, giacché se li si immaginassero contribuenti in regola si rischierebbe di non prendere neanche un voto difendendo chi sottrae loro la pecunia per scuole e ospedali, facendosi mantenere dagli altri.
Davide Giacalone, La Ragione 24 maggio 2024