Politica

La casa e la suocera

La casa di Claudio Scajola e gli appalti della Rai, magari alla suocera di Gianfranco Fini o alla moglie di Italo Bocchino, non hanno nulla in comune, salvo concorrere a far imbufalire una parte dell’opinione pubblica, mentre un’altra parte se ne resta quieta e rassegnata, tanto si sa che chi può arraffa per sé. Tutto finirà nella tenaglia del giustizialismo e dello scandalismo, utilizzando ciascun tema per colpire in testa gli avversari, per poi sfumare nel nulla. Senza volontà d’estirpare il reato, ma credendo d’aver diritto di mollar ceffoni al peccatore. I due casi, invece, sono la sintesi di come non si dovrebbe mai procedere.
Cominciamo dalla casa. Se il ministro fosse colpevole dovrebbe non solo dimettersi (come ha offerto), ma essere condannato e andare a scontare la pena. Ma quale? per quale reato? Per averne un’idea occorrerebbe sottoporlo ad indagini, rinviarlo a giudizio (se ce ne sono gli elementi) e poi giudicarlo. Invece capita che Scajola sia offerto al pubblico giudizio senza che neanche gli sia stato inviato un avviso di garanzia. Se un’inchiesta giornalistica avesse scandagliato i suoi beni (come quelli di qualsiasi altro politico) e avesse trovato delle incongruenze, che, come minimo, portano all’evasione fiscale, la cosa potrebbe ben essere dibattuta senza avvertire la necessità d’indagini penali. Possono venire dopo. Ma se la fonte dell’informazione è proprio l’indagine, che, però, al momento in cui scoppia il caso, non riguarda il ministro, c’è qualche cosa di gravemente storto.
Difatti, le notizie circolano perché a Perugia è sorto un conflitto d’attribuzione, per sostenere il quale la procura deposita le carte. Secondo la zotica dottrina che ha preso piede, ciò basta a consentire la pubblicazione di qualsiasi cosa. Sento già l’obiezione, sempre la solita: non attaccarti al cavillo, guarda la sostanza. No, scusate, nel diritto la forma è sostanza, non cavillo, e, per qualsiasi cittadino, è impossibile difendersi da ciò di cui non è formalmente accusato. Ma parliamo della sostanza, ponendoci una domanda: le cose fin qui pubblicate, al di là di ogni altra considerazione, depongono per una sicura colpevolezza? Quel che leggo, più che altro, sembrerebbe prova di una sicura cretineria.
La differenza fra il valore catastale degli immobili e quello di mercato è uno scandalo talmente noto e diffuso da non essere più uno scandalo, ma un costume. La gran parte di quelli che hanno comprato casa hanno pagato qualche cosa in nero. Chi mi legge lo sa, quindi è facilitato a chiedersi perché, disponendo di una cifra in contanti (lasciate perdere la provenienza, che se il ministro avesse accettato mazzette sarebbe un ulteriore motivo di meritata condanna), il drappello di stupidi si reca in banca, versa tutto in un conto e, poi, si fa fare 80 assegni circolari. Cos’è, l’olimpiade del fesso? Se è vera una roba simile va contestata come aggravante: per il ministro perché incapace e per gli eventuali complici perché ricattatori. Solo chi voglia ricattare, in futuro, predispone una simile messa in scena.
Posto, dunque, che non c’è il processo, e neanche l’indagine, posto che il racconto giudiziario, così come è stato portato all’attenzione dell’opinione pubblica, è a dir poco scombiccherato, su queste basi si può costruire sia l’infondata maldicenza che la fondata condanna morale, ma non l’unica cosa che serve ad un Paese civile: l’accertamento delle singole e precise responsabilità. Quelle che avete sotto agli occhi, insomma, sono le premesse dell’inciviltà.
E veniamo alla Rai. E’ piena di suocere, mogli, amiche, amici, cognati, cugini, conoscenti, affini e discendenti. E’ una schifezza. Quel che serve non sono i segugi che indagano negli stati di famiglia, ma un contabile non prezzolato: dati i soldi che assorbe, dato il numero dei dipendenti, dati gli investimenti in strutture produttive, l’appalto esterno dovrebbe essere l’eccezione, e solo per prodotti particolari. Invece è la regola, per tutto. La Rai ci costa due volte: la prima per pagare le assunzioni clientelari, e la seconda per pagare agli esterni quel che non fanno gli assunti. I dirigenti Rai amministrano due poteri: quello delle scelte clientelari, per le assunzioni, e quello delle scelte parimenti clientelari, per assegnare le produzioni esterne. Se fosse un’azienda privata avrebbe già chiuso i battenti, da decenni, o il proprietario avrebbe già fucilato gli amministratori. Invece sta lì, perché retta dalla generale connivenza, dalla spartita convenienza e dall’imposta sudditanza di noi cittadini, obbligati a pagare un informe e inguardabile mostro: il canone.
Premesso ciò, è bello che delle liti politiche generino un tale desiderio di trasparenza, ed è evidente che le scelte politiche di Fini abbiano spinto a rompergli le scatole, senza risparmiare gli scudieri, ma la risposta a questa roba non consiste nel dire: basta speculazioni politiche, giù le mani dalla suocera. Così si favorisce il ritorno alla pregressa omertà. Semmai si dovrebbe dire: visto che si tratta di soldi pubblici, adesso pubblicate l’elenco completo degli appalti Rai, con tutte le generalità di soci e amministratori delle società scelte, ivi comprese quelle che agiscono in sub-appalto e quali fornitrici. Tutti. Non so quante suocere ci troveremo, so che lo spettacolo sarà così immondo da rendere meno isolata la nostra voce, che da anni sosteniamo l’opportunità di venderla, la Rai.
Riassumendo: i due casi non hanno nulla in comune, ma se li si affronta mazzolando la vittima di turno (che se lo meriti o meno), facendo finta di non vedere il problema collettivo e l’andazzo generale, si ottiene solo un Paese più barbaro e più cattivo. Non esattamente ciò di cui abbiamo bisogno

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