Era popolo vero, quello raccolto attorno a Michele Santoro, in quel di Bologna. Erano tanti, molti erano giovani. Certo, c’è stato un poderoso lancio pubblicitario, c’erano i personaggi della televisione, che attirano sempre il pubblico, ma quei numeri non si fanno se non c’è qualche cosa che muove le persone, le loro anime. Qui non m’interessa esaminare le tesi esposte. La sola ipotesi che l’Italia stia correndo un rischio fascista, che Silvio Berlusconi somigli a Benito Mussolini, è terribilmente ridicola. Patetica, se non altro perché manifesta una disarmante ignoranza circa il fascismo. Lasciamo perdere. Quel che m’interessa è una cosa diversa: a poche ore dall’apertura delle urne, allo scadere di una partita amministrativa, per mobilitare gli italiani s’usano, ancora una volta, i toni e i temi della guerra civile.
Era popolo vero anche quello che ha riempito la manifestazione del Pdl, su cui abbiamo qui riflettuto. Per mobilitare quei due popoli, però, non sono sufficienti dei programmi politici, o anche dei sogni, delle speranze. Domina la stanchezza, lo scetticismo, il distacco. Per portare quei popoli, quelle che un tempo si sarebbero dette “masse”, nella battaglia democratica occorre agitare la paura. La paura che sia minacciata la democrazia stessa. Per certi aspetti, è naturale: in tutti i sistemi liberi si chiamano gli elettori ad una doppia identificazione, a riconoscersi “per” qualche cosa e qualcuno, nonché “contro” qualcos’altro e qualcun’altro. Il fatto è che, da noi, non solo il contro ha superato ogni parità di perso con il pro, ma i contendenti si accusano d’attentati sostanzialmente eguali. Uno dice che la giustizia vuol cancellarlo, l’atro risponde che il governo vuol chiudergli la bocca, il tutto in un’Italia in cui nessuno sparisce e tutti schiamazzano.
Lunedì prossimo vincerà le elezioni chi sarà riuscito a sommare ai voti d’apparato, d’identificazione e d’interesse il maggior numero di voti recuperati nell’area della paura. Sarà chiamando gli elettori a pronunciarsi “contro” che si proverà ad arginare l’astensione. Il che, naturalmente, agevola chi non governa. Ma non è questo che disturba, è che siccome tutti tentano la medesima operazione, se ne trae l’impressione che non governi mai nessuno. Siamo il Paese dei poteri roboanti, ma impotenti. Tutto questo è potuto capitare perché s’è smesso di fare politica, di coniugare interessi, programmi e sogni, portando tutto sul terreno di una propaganda che si regge sull’eterno pericolo costituito dagli “altri”. Una guerra civile. Incruenta, fin qui, grazie al cielo, ma colma d’insidie, considerati i tempi che ci attendono.
Nel braciere delle paure si confondono le cause con gli effetti. Un esempio, cui ho dedicato tanti interventi: non sono i magistrati politicizzati la causa dello schifo in cui è precipitata la giustizia italiana, è quello schifo ad avere prodotto analfabeti in toga che provano la carriera politica e condizionano la sinistra. Tocca al legislatore rimediare, agendo nel profondo. Invece, s’è galleggiato, e malamente, sulla superficie. Il male non curato ha sviluppato patologie febbricitanti, e il popolo, vero, raccolto attorno a Santoro, dimostra che non è più la sinistra politica a saper usare i giornalisti schierati, ma sono i giornalisti autoreferenti ad incarnare l’opposizione e, nei momenti di generosità, a cedere il microfono a qualche rappresentante della sinistra politica. In questa campagna elettorale, che fra poco si chiude, le parole di Pier Luigi Bersani hanno avuto il peso delle piume. Quelle di Enrico Letta neanche quello. Ma le parole di Santoro hanno pesato, e peseranno sulla sinistra che potrà piegarsi a quelle, oppure accettare che parte dei propri consensi vadano alle liste del qualunquismo giustizialista. E’ una deriva pericolosa, per loro e per noi tutti.
Ho letto con una stretta al cuore le parole di Pietro Ingrao. Non l’ho mai ammirato, semmai mi piaceva Giorgio Amendola, che gli era avversario. Ma faceva politica, un tempo. Ora gli chiedono di Berlusconi, e lui risponde: “un reazionario di bassa lega”. E va bene, è un giudizio. Poi aggiunge: bisogna liberarsene altrimenti non ci sarà riscossa. Riccardo Barenghi, che lo intervista, prova a fargli dire qualche cosa di politico: c’è chi può batterlo? Ingrao risponde: no. Come sarebbe a dire, no? Certo che si può batterlo, basta non giocare al gioco in cui lui è più bravo, basterebbe far politica e non costruire coalizioni eguali e contrarie alle sue, quindi nate a sua immagine e somiglianza. Ma non ne sono capaci. Sicché, al vecchio comunista, non resta che la dichiarazione di voto, che è anche la dichiarazione di definitiva scomparsa: voto Nichi Vendola, anche “perché è gay”. Vota il sesso, come se si stesse organizzando un’orgia, facendo eco al berlusconismo che rivendica la scelta di ministri donna, sottolineando che sono giovani. L’unica paura che non sembra attecchire, alla fine, è quella del ridicolo.
Chiuse le urne, lunedì, si spera che riapra la politica, senza abbandonarsi ad un estenuante conto alla rovescia, da lì alle urne successive. Il governo metta mano alle riforme, la sinistra si liberi dal ricatto giustizialista. Il Paese non può limitarsi ad aspettare che tutto questo finisca.