Politica

La politica, ai tempi del maggioritario

La fine della guerra fredda porta con sé, fra le altre conseguenze positive, anche la fine del modello partitico ispirato ad una identità ideologica. Il partito comunista, o, meglio, i partiti comunisti d’Europa, ne sono stati l’incarnazione più strutturalmente coerente (modellata dai dettami della terza internazionale), ma sarebbe un errore credere che ne siano stati l’unica.

Il collante ideologico è servito a tenere insieme formazioni politiche grandi e piccole, ed anche quelle, paradossalmente, che rifiutavano un’identificazione ideologica, in questo caso descrivendo una identità per negazione. Era inevitabile che fosse così, perché dentro il comune ventre delle libertà europee si erano sviluppati modelli che, una volta svezzati, apparivano ed erano contrapposti, alternativi. Non è un caso, del resto, che per troppo lungo tempo l’appellativo di “riformista”, detto di soggetto che aveva rinunciato ad una radicale rivoluzione della realtà, lo si era considerato alla stregua di un insulto. Ciò, ancora una volta, vale molto per la sinistra, con le sue correnti socialiste, ma vale anche per il mondo liberale. Si pensi a Piero Gobetti.

L’esperienza storica italiana, poi, aveva plasmato un prodotto non necessariamente presente in altre democrazie: il partito ispirato ad identità religiosa, anzi, per essere più precisi, cattolica. Frutto, questo, della troppo a lungo irrisolta questione romana, e del non expedit che da quella derivava. Il “partito unico dei cattolici”, in verità, non ha mai impedito che fedeli della chiesa romana abbiano militato, talora in posizioni di grande rilievo, in altre formazioni, anche contrapposte, ma era, appunto, il lascito di una storia che con la Repubblica si era chiusa e risolta.

C’è un fatto curioso. Quando, in incontri internazionali, o, più frequentemente, nel corso di discussioni al Parlamento Europeo, i politici di casa nostra cadevano a parlare di “laicità” gettavano nel panico gli interpreti: la lingua che manca di questa storia, manca anche del vocabolo.

Laici e cattolici

Il giorno in cui nacque la Repubblica il grosso della dicotomia laici-cattolici si era già esaurita. Il che non significa che non siano perdurate, ed ancora perdurano (nella chiave che vedremo fra poco), diversità di idee, di sensibilità, di valori, ma nessuno di questi richiamava più la possibilità che s’immagini una defezione di sovranità repubblicana a vantaggio dell’organizzazione religiosa. E’ un’ipotesi mai presa in considerazione dalla Democrazia Cristiana, che, con la guida degasperiana (e, ancora una volta, significativamente, proprio su una “questione romana”), ruppe ogni possibile continuità con il passato.

Chi vuol sostenere il contrario, solitamente, cita l’esperienza dei comitati civici, voluti e coordinati da Luigi Gedda, od i comitati referendari voluti da Gabrio Lombardi. Ma perché mai, in omaggio a quel principio, quelle forze avrebbero dovuto rinunciare a battersi per le proprie convinzioni? E perché mai la gerarchia ecclesiastica non avrebbe dovuto far sentire la propria voce su materie che direttamente ne coinvolgevano il magistero? Il fatto politico è un altro: pur nel vivo di quegli scontri civili la Democrazia Cristiana non interruppe mai la collaborazione di governo con forze politiche che militavano nel campo avverso, segno, questo, del non indissolubile legame fra le diverse questioni. Ed è in ciò, appunto, il venir meno della dicotomia.

L’evolversi dei tempi e dei costumi, l’interiorizzazione collettiva della necessaria differenza fra convincimenti personali e comportamenti socialmente rilevanti, hanno fatto il resto.

La questione laica

Attenzione, però: questo non significa che il mondo abbia imboccato la via della schizofrenia. E’ naturale che per un credente l’aborto è e resta una violazione della legge divina, ma questo non gli impedirà di vivere e condividere leggi che regolano l’interruzione della gravidanza. Ed è anche naturale che per un non credente lo stesso aborto possa rappresentare un attacco al diritto naturale del nascituro, ma il manifestare tale opinione non farà di lui un papista.

In altre parole, si riconsegna alla vita democratica la dialettica delle opinioni e dei valori, senza che il loro scontrarsi evochi possibili minacce alla laicità dello Stato, casa comune di tutti.

Non è, questo, un principio banale, anzi, assume oggi un valore di primaria grandezza, visto che l’assottigliarsi delle frontiere, il crescere dei rapporti politici e culturali fra aree distanti del mondo, portano a stretto contatto pregiudizi ideologici e religiosi di opposta natura. Noi abbiamo imparato (anche per millenaria tradizione, e pagando alti tributi di sangue) a distinguere la fede da Cesare, sappiamo riconoscere legittimità tanto alla fede quanto a Cesare, ed abbiamo imparato a dirimere i contrasti e gli stridori fra le due appartenenze, ma la stessa cosa non può dirsi per altri ceppi della storia e del pensiero umani. Ragion per la quale quel principio dobbiamo tenercelo stretto, e, lungi dal negarlo, semmai, offrirlo a tutti come un cardine di civiltà.

Senza colla ideologica

Lucio Colletti cominciò a scrivere di “crollo delle ideologie” prima ancora che ne crollassero i supporti statuali. Fin da allora fu chiaro il rischio che quel crollo avrebbe portato con sé un collasso delle idealità. Un rischio tanto concreto da avere preso forma, innanzi ai nostri occhi.

Cosa sono, se non questo, le odierne discussioni sulla mancata “identità” delle democrazie occidentali, o dell’Europa? E cos’è, se non il terrore di questo, che fa dire a taluni che occorre cercare nel nostro passato, anche lontano, le radici di un’identità che sarebbe pericoloso perdere? A veder queste scene viene alla mente l’immagine di quel benestante che si sente caduto in miseria per il solo fatto di non avere incrementato il proprio patrimonio nel corso dell’ultimo anno: il suo disagio è reale, la sua paura quasi carnale, la sua sfiducia palpabile, e, non di meno, tutto questo appare paradossale, e forse anche ridicolo, al povero che non riesce, oggi, a sfamare la famiglia.

Essendo morta la terrena divinità nella quale avevano creduto, gli ideologizzati di ieri diventano i terrorizzati di oggi, ed il terrore impedisce loro di vedere quale enorme patrimonio di valori e di istituzioni è stato costruito attorno all’idea di uno Stato casa comune, non definito per appartenenza fideistica, ma per accettazione di comune convivenza e prosperità.

La forma politica

Invece è proprio quel grande patrimonio a potere dare nuova forma alla politica, facendola finita con guelfi e ghibellini (che, poi, nell’esperienza concreta non hanno mai funzionato, visto che il guelfo Dante venne definito il “ghibellin fuggiasco”).

Gli europei si meravigliano nell’assistere ad alcuni passaggi delle campagne elettorali statunitensi, dove i contendenti se le suonano di santa ragione, ma la mattina dopo lo sconfitto riconosce di essere tale, e si stringe, da americano, al vincitore. E’ solo il frutto della non divisione ideologica.

Si stupiscono nel vedere i valori religiosi direttamente promossi ad elementi di battaglia politica. Pensano: accidenti, ma così si mette a rischio la laicità dello Stato. Ed invece, al contrario, quello ne è il trionfo, perché nessuno si sogna di trasformare in etico lo Stato dell’Unione e, proprio per questo, non ha pudore ad esprimere le proprie convinzioni. Anzi, pensa che sia un sano esempio di trasparenza.

Si stupiscono (anche se lo tacciono) nel vedere le lobbies non agire nell’ombra, ma finanziare chi, domani, sarà loro utile. Già, perché uno dei figli dell’ideologismo europeo è il non meglio definito “interesse generale”, che dovrebbe esistere e sopravvivere senza contaminarsi con le maggioranze elettorali, senza diventare “di parte”. Invece la democrazia moderna non solo non rifugge, ma incarna la rappresentanza (che non è il conflitto) degli interessi, e trova la sua “purezza” nel manifestarli prima, e non dopo avere mostrato un accattivante volto ingannevole.

La forma partito

Noi, in Italia, non abbiamo ancora tirato fuori le gambe dalla realtà dei partiti ideologici, sopravvivendone alcune vestigia, né siamo riusciti a far vivere la politica come schietta rappresentanza di idee ed interessi, con ciò promuovendo una mobilità elettorale che specchierebbe una (al momento inesistente) mobilità sociale. Non siamo il passato (con i suoi pregi ed i suoi difetti), ma non siamo il futuro. Siamo una seconda Repubblica che vive come agonia della prima e promessa della terza. Le agonie devono essere brevi, altrimenti diventano disumane. E le promesse devono essere onorate, altrimenti diventano fanfaluche.

Purtroppo il mondo politico, con la geografia bipolare che si è data, o nella quale è caduto, con un maggioritario anomalo che serve a far contare di più le ali, anziché il centro, sembra avere smarrito il bandolo della matassa. Gran parte della riflessione s’incentra su quali sono, per ciascun polo, le migliori condizioni ed alleanze al fine di battere l’altro. Con ciò stesso confermando che non solo non si riesce ad uscire, ma neanche a guardare fuori dalla gabbia nella quale ci si è infilati.

I partiti, non più ideologici, vivono di cascami ideologici definendosi per contrapposizione, facendo vivere, gli uni, un’antistorica minaccia dispotica, o, gli altri, una assai presunta diversità antropologica e morale. Si maneggiano con imperizia gli strumenti della selezione democratica: gli uni cercando candidati che, per loro trasparenza, non contraddicano la carismatica figura del capo; gli altri pensando che si possano tenere delle primarie su candidati indicati dagli stessi partiti della coalizione, come se le primarie non servissero ad individuare il leader capace di incarnare un programma nuovo, ma a decidere chi può portare alla vittoria quello vecchio.

I movimenti

Le idee nuove ci sono, uomini e donne capaci di dare loro sostanza non mancano, ma tutto questo si agita fuori dal mondo politico ed istituzionale, che, invece, cerca sponde nel mondo delle rappresentanze sindacali ed associative, come se quello sia un mondo cui porre domande, anziché offrire risposte, anche sgradite, ma risposte. Nel vuoto si afferma, come possa far le veci di un programma, l’idea di “fare squadra”. L’affiatamento ed il comune sentire è certo una buona cosa, ma è non meno utile stabilire quale è lo sport che si pratica e quale lo scopo dello sforzo comune.

In una democrazia non c’è ragione alcuna di nutrire timori per il contrapporsi d’idee diverse. Va benissimo. E’, invece, preoccupante il contrapporsi di vuoti d’idee, o d’incapacità realizzative. Il centro sinistra, nella scorsa legislatura, aveva, al suo debutto, esposto una missione da compiere. Era quella che aveva fatto dire a Gianni Agnelli che, talora, ci sono cose che la destra non può fare ed alle quali, invece, la sinistra può mettere mano. Ma quello schema si ruppe, e lo constato senza esprimere giudizi di merito, con la caduta del governo presieduto da Romano Prodi.

La continuità non si è rotta, invece, nella legislatura governata dal centro destra, anche questo dotato, ai suoi esordi, di una missione da compiere. Non si tratta di micragnare sulle cose fatte, né di negare gli indubbi successi sul terreno della politica estera, ma il sussultante naufragare della legge finanziaria è anche il sommergersi di quella missione.

A fronte di questo, come dicevo prima, non mancano idee e fermenti nuovi, che si agitano in movimenti e centri di riflessione. Società Aperta è un movimento, e crede di avere svolto una funzione nel far emergere le difficoltà reali del nostro sistema produttivo e finanziario. Ma succedono due cose, ambedue significative.

La prima è che, come derivato del bipolarismo all’italiana, si sente il feroce impulso a schierare tutto. O stai da una parte o stai dall’altra, e se proprio non ci vuoi stare, allora si è inventato un contenitore degli esuberi, denominato terzismo. Il quale terzismo è, per sua natura, destinato all’inutilità perché il sistema elettorale non consente un terzaforzismo. In altre parole, e, questa volta in reale coerenza con il bipolarismo all’italiana, o i movimenti sono estremisti ed estremizzanti di una delle pulsioni interne ai due poli (tipo i girotondini, per intenderci), o vengono messi ai margini del confronto democratico.

La seconda cosa significativa è che essendosi risolta la politica in misurazione della prevalenza elettorale, essendosi ridotta la sua capacità progettuale nell’assemblaggio di componenti che si candidino a superare quelle della parte avversa, anche il sottrarsi al conteggio elettorale contribuisce a far uscire dal dibattito politico. E questo è un grave errore.

E’ vero che, in democrazia, le maggioranze di governo sono stabilite dagli elettori, e che le elezioni, quindi, sono il cuore della democrazia. Ma non è affatto vero che la democrazia possa ridursi alla sua deriva aritmetica, perché prima della misurazione c’è la preparazione delle idee, dei progetti, dei programmi. Il mondo politico con il quale abbiamo a che fare, invece, si trasforma sempre più in una specie di direzione marketing. Ma non del marketing capace di indirizzare la produzione verso i bisogni ed i sogni dei consumatori, giacché noi non abbiamo nulla contro l’uso di tecniche commerciali, né ci fanno paura le parole, bensì di un marketing che ha divorziato dalla produzione, di un marketing senza industria. Lo slogan senza il prodotto, la suggestione senza la soddisfazione. Il vuoto, in altre parole.

Non di meno non demordiamo. Anche l’aritmetica elettorale mette in evidenza che sempre più numerosa è la schiera di cittadini che si sente estranea al giuoco politico, non riconoscendosi nello scontro cui assiste. Il nostro problema non è quello di strutturare un contenitore dove far precipitare queste estraneità, ma quello di recuperarle alla passione civile proponendo idee chiare, distinguibili, ovviamente opinabili, ma riconoscibili.

Se le forze politiche presenti in Parlamento sapranno aprire un dialogo con questo modo di intendere le cose, con questo metodo per arrivare alla definizione di proposte, sarà un nostro successo, il che conta poco, ma sarà anche un bene per loro, il che conta di più, per loro stessi, e per il Paese.

Una visione

Non è, questo, un problema che riguarda solo la politica ed i suoi affezionati cultori (fra i quali noi), ma tutto intero un Paese che non può pensare di vivere la competizione globalizzata senza una guida, senza un’interpretazione del proprio interesse, né può sperare di conservare l’esistente, oramai passato, grazie a protezioni che nessuno offre e che, comunque, non reggerebbero.

Una società è dinamica anche nella sua rappresentazione politica. L’Italia ha bisogno d’idee nuove, di nuova classe dirigente, tirando fuori la testa e non avendo paura delle sfide. Se il nostro sistema politico cercherà di conservare se stesso propizierà un declino sempre più scivoloso, sempre più limaccioso. Ma perché di cambiamento si possa parlare occorre che parta dalle idee, ed occorre che le idee trovino coerente collocazione non più in una iconografia ideologica, ma in una visione, in un modo di vedere e far vivere gli interessi capaci di promuovere lo sviluppo.

La rivoluzione, si diceva un tempo, non è un ballo a corte. La democrazia moderna non deve essere un ballo in maschera, non si cerchi di conciliare tutto, dalla sopravvivenza dello Stato sociale così com’è alla minore pressione fiscale, dal cedimento alle corporazioni al proponimento di maggiori libertà di mercato. Ciò che al mondo politico, da una parte e dall’altra, deve fare paura non è l’evidenza delle diversità, ma la messa in scena dell’indistinguibilità.

E’ la nostra visione delle cose. Da questa discendono i singoli pezzi di una proposta che va dalle riforme istituzionali a quella del sistema elettorale, dalla consapevolezza della condizione economica alla necessità di rompere i vincoli che ingessano il mercato, dall’urgenza di ridare dignità al mondo della giustizia all’opportunità di non perdere il ritmo della ricerca e dell’innovazione. Singoli capitoli che abbiamo svolto, che continuiamo a svolgere, ma sempre con lo sguardo rivolto alla bussola, in modo da non finire come altri: sempre in movimento, ma rigiranti in tondo.

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